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Big Data sotto attacco: Come gli utenti cancellano i propri dati personali da internet esercitando il diritto all’oblio

Scopri come il "diritto all’oblio" ti permette di seppellire il tuo passato imbarazzante online, senza cancellare davvero nulla – perché chi vuole che Google ti ricordi di quell’antico scandalo? È la vendetta perfetta contro il web che non dimentica, bilanciando privacy e libertà d’informazione in un mondo digitale impazzito.

Preparatevi, gente, perché il diritto all’oblio è il salvavita digitale che tutti fingono di non volere, ma che in realtà adorano. Nato per proteggere la tua identità da quelle vecchie verità online che ti rendono uno zimbello eterno, non cancella la tua dal web – oh no, sarebbe troppo facile! – ma solo rende più difficile trovarla su Google digitando il tuo nome. È come dire: "Ehi, motori di ricerca, smettetela di rovinarmi la reputazione con fatti superati!" Questa trovata giuridica è una risposta alle nostre vite digitali, dove nessuno dovrebbe rimanere intrappolato in errori del passato, a meno che non siano succosi scandali che fanno audience.

Ma attenzione: puoi invocare questo diritto anche se sei stato tu a spargere la notizia, tipo con un’intervista o un post social da ubriaco. Però, non tutti se la cavano – devi distinguere tra vecchie news obsolete, roba ancora calda e fatti storici che fanno storia. Per ottenere la deindicizzazione, vai dritto all’editore o al motore di ricerca con moduli pronti: chiedi di rimuovere quel link fastidioso, o magari aggiorna la storia con una nota nuovi sviluppi. Ricorda, però: non osare pretendere di cancellare tutto o alterarlo – il web non è il tuo diario personale!

Cos’è il diritto all’oblio? Affonda le radici nel gran casino tra il diritto all’informazione (articolo 21 della Costituzione) e la protezione della privacy (articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, aka "Carta di Nizza"). In un’era dove ogni stupidaggine online ti segue per sempre, le corti europee hanno detto basta, formalizzando tutto nel GDPR. Non si tratta di eliminare i dati, ma di deindicizzarli – roba tecnica per dire che la notizia resta sul sito, ma non salta fuori quando cerchi il tuo nome. È una tutela furba per limitare i danni sociali senza buttare via la memoria digitale collettiva.

I giudici decidono se una notizia è obsoleta, basandosi su gravità, passato e se sei un VIP o no. Per esempio, se un’indagine penale è finita senza condanna, potresti liberartene in due o tre anni; ma se è una condanna definitiva, beh, buona fortuna. Se la notizia è falsa? Fuori subito, perché è diffamazione bella e buona. Se non è di pubblico interesse, via anche quella – privacy vince!

Chi può esercitare il diritto alla cancellazione dei dati personali e come? Qualsiasi perdente del web, anche se hai una condanna alle spalle. Se le cose sono cambiate, tipo un’assoluzione in appello, puoi chiedere non solo deindicizzazione, ma anche una nota aggiornata sugli articoli. Sì, persino se hai contribuito a diffondere la roba, come con un post virale – non ti esclude dal gioco. Per avviare la procedura, contatta l’editore via PEC o raccomandata, o vai dritto su Google e Bing con i loro moduli online. La Corte di Giustizia UE li ha resi responsabili, quindi non farti scrupoli.

Ma non pensare di vincere sempre: se la notizia è ancora rilevante, storica o improvvisamente tornata di moda, dimenticatelo. Prendi un politico con scandali passati che ora vuole un nuovo – l’interesse pubblico sbatte la porta alla tua privacy. Alla fine, gli articoli deindicizzati restano online, riducendo solo il tuo imbarazzo pubblico. È un compromesso che protegge te, ma lascia intatta la sporca lavagna della storia digitale.

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