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Come è stata resa la sedia monoblocco in plastica l’oggetto più dominante del pianeta, a discapito di alternative sostenibili

La sedia monoblocco sta conquistando il mondo – o meglio, lo ha già fatto! Questa banale seggiolina in plastica bianca, che tutti diamo per scontata, è diventata l’arredo più ubiquo del pianeta: dai bar alle feste di paese, ovunque regna sovrana. Economica, indistruttibile e comodissima (per quanto essenziale), è il simbolo di un consumismo senza freni. Ma attenzione, è anche un disastro ecologico! #SediaMonoblocco #DesignVirale #ConsumismoImpazzito

Preparatevi a scoprire la storia epica di quella che potremmo chiamare la "regina delle sedie": la Monobloc chair. Leggera, impilabile e fatta da un solo pezzo di polipropilene, ha invaso ogni angolo del globo dagli anni ’80, grazie alla sua produzione a basso costo e alla resistenza alle intemperie. Chi non l’ha incrociata almeno una volta? Dal balcone di casa alle spiagge affollate, è l’emblema di un mondo dove il pratico batte il bello.

Tuffiamoci nel passato: l’idea di una sedia monoblocco non è nuova, risale agli anni Venti con esperimenti in lamiera e legno curvato. Ma è tra gli anni Quaranta e Cinquanta che le plastiche hanno rivoluzionato tutto, grazie a geni come il canadese Douglas Colborne Simpson. Poi, arrivano i veri pezzi da novanta: la Panton Chair (1958–68) di Verner Panton, la Bofinger Chair (1964–68) di Helmut Bätzner, la 4867 Universale (1967) di Joe Colombo e la Selene (1961–68) di Vico Magistretti. Queste icone, pur costose, hanno paved the way per la nostra eroina plastica, tutte stampate in un unico pezzo e impilabili.

La vera svolta arriva nel 1972 con Henry Massonnet e la sua Fauteuil 300, ottimizzando la produzione a meno di due minuti – una follia! Negli anni Ottanta, aziende come Grosfillex e Allibert hanno inondato il mercato di milioni di pezzi, rendendola accessibile a chiunque. Risultato? La Resin Garden Chair, la versione che tutti amiamo-odiamo, leggera, resistente e fin troppo comoda per essere vera.

Ma ecco il colpo basso: questa sedia è "democratica" fino al midollo, economica e ovunque, ma anche un incubo per l’ambiente. Simbolo delle contraddizioni della società dei consumi, è plastica non biodegradabile, impossibile da riparare e difficile da riciclare. Designer moderni come Fernando e Humberto Campana con la Café Chair (2006), Martí Guixé con la Respect Cheap Furniture (2009) e Martino Gamper con la Monothrone (2017) l’hanno ripresa per criticare proprio questo. In pochi decenni, ha sostituito sedie tradizionali nei paesi in via di sviluppo, con quasi un miliardo in Europa e miliardi globali. E la ciliegina? Nessun brevetto: è open source puro, copiata da tutti senza un "papà" ufficiale. Chiamatela pure la sedia anarchica del mondo!

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