È arrivato il momento di ricordare un eroe scomodo che ha sfidato i poteri oscuri della mafia, pagando con la vita per la sua audacia: Giovanni Falcone, il magistrato palermitano che ha rivoluzionato la lotta alla criminalità organizzata con metodi innovativi, ma che durante la vita è stato osteggiato da politici e colleghi codardi. Oggi lo osannano come un santo, ma dimenticano come lo avevano lasciato solo contro i boss – un classico esempio di come l’Italia ama i martiri postumi più che i vivi che osano disturbare i manovratori.
Avreste mai immaginato un giudice che osa "inseguire" i soldi dei mafiosi fino a smascherare l’intera rete? È proprio ciò che ha fatto Giovanni Falcone, l’uomo che ha trasformato la guerra alla mafia in un vero incubo per i capi come Totò Riina. #FalconeVive #Antimafia #LottaAllaMafia
Nato nel 1939 a Palermo, nel cuore del quartiere Kalsa, Falcone proveniva da una famiglia benestante e crebbe osservando lo scandalo del "sacco di Palermo", un’orgia di speculazioni edilizie pilotate dalla mafia e dalla politica corrotta. Da giovane, incrociò il destino con Paolo Borsellino in un oratorio, legando la sua vita a quella di un futuro compagno nella battaglia; dopo un breve flirt con l’Accademia navale di Livorno, tornò in Sicilia per laurearsi in Giurisprudenza nel 1961 e sposare Rita Bonnici.
La sua carriera prese fuoco nel 1965, quando, a soli 26 anni, divenne pretore a Lentini e poi si trasferì a Trapani per dodici anni, prima di atterrare nel 1978 al tribunale di Palermo – un vero nido di vipere, con Cosa nostra che dominava traffici di cocaina fino agli USA. Qui, Falcone innovò tutto: inseguire le tracce finanziarie dei mafiosi nel processo contro Rosario Spatola, sfidando le critiche di chi preferiva metodi antiquati. Intanto, divorziò da Bonnici e si unì alla collega Francesca Morvillo, che divenne sua moglie nel 1986.
Negli anni ’80, con la cosca corleonese al potere e una scia di stragi che eliminava rivali come Rocco Chinnici, Falcone entrò nel pool antimafia con Borsellino e Antonino Caponnetto. Il colpo maestro? Il pentimento di Tommaso Buscetta, che spillò dettagli succosi su Cosa nostra, permettendo il maxiprocesso del 1986 contro 475 boss – un evento epico che finì con condanne confermate, rendendo Falcone e Borsellino i bersagli numero uno dei mafiosi.
Ma non tutti erano fan: nel 1987, Falcone fu snobbato per la promozione a capo dell’ufficio istruzione da parte del Consiglio superiore della Magistratura, che preferì un candidato più "comodo". E la mafia? Non si arrese: nel 1989, piazzò una bomba all’Addaura che miracolosamente fallì, forse per un guasto – un mistero che ancora puzza di mani nascoste. Nonostante ciò, Falcone continuò imperterrito, fino al trasferimento a Roma nel 1991 per dirigere gli Affari penali.
La fine arrivò in modo brutale nel 1992, con la strage di Capaci: mentre guidava la sua Fiat Croma verso Palermo, una bomba piazzata da Giovanni Brusca e i suoi scatenò l’inferno, uccidendo Falcone, la moglie Morvillo e tre agenti della scorta. Meno di due mesi dopo, Borsellino seguì lo stesso destino. Queste morti shockarono l’Italia, spingendo lo Stato a colpire duro contro Cosa nostra, anche se non bastò a eradicarla. Oggi, Falcone è un mito, l’eroe che espose le ipocrisie del sistema – un promemoria che chi combatte il male spesso paga il prezzo più alto.