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Il mito della città perduta di Ubar, l’Atlantide delle sabbie, viene riscritto dall’archeologia in un incontro controverso con la leggenda

Svelata l’Atlantide delle Sabbie: , la città perduta che ha inghiottito se stessa! Immaginate una metropoli da favola nel bel mezzo del deserto arabo, piena di ricchezze e spezie, che poi – puff! – scompare sotto la sabbia come un brutto scherzo del destino. Chiamata "Atlantide delle Sabbie", questa leggendaria Ubar era un paradiso per commercianti, crocevia di culture sulla Via dell’Incenso, situata nell’odierno Oman, a .040 km da Muscat. Ma attenzione, non è solo una storiella: è reale, e la sua fine drammatica fa impallidire persino le bufale moderne. #Ubar # #

Ubar, o "Iram dei Pilastri", è passata dalla leggenda alla realtà in un balzo che ha lasciato a bocca aperta gli storici. Per secoli, i racconti la dipingevano come una città straricca, tappa obbligata per carovane cariche di spezie, mirra e incenso dirette verso Egitto, Mesopotamia e India. Proprio come "Atlantide", è svanita nel nulla, inghiottita dalle sabbie del Rubʿ al-Khālī, quel "Quarto Vuoto" infernale della Penisola Arabica. Le fonti antiche, incluso il Corano, la descrivono come un hub mercantile tra il 3000 a.C. e il I secolo d.C., e persino T.E. Lawrence, quel pazzo di Lawrence d’Arabia, la chiamò "l’Atlantide del Deserto", alimentando il mito con il suo fascino da avventuriero.

La vera svolta arrivò nel 1992, quando un team di scienziati e archeologi, stufi di chiacchiere, usò satelliti e telerilevamento per stanare i resti di Ubar. A guidarli c’era il Dr. Juris Zarins, che si è infilato in una delle zone più ostili del pianeta e ha tirato fuori una fortezza, case, pozzi e strade sepolte. Sotto, però, c’era il colpo di scena: caverne piene d’acqua che hanno sostenuto la città, ma che alla fine l’hanno fatta crollare per un uso esagerato – un disastro ecologico ante litteram, diremmo oggi. (E chissà se non sia una lezione per chi spreca risorse oggi, eh?)

A rendere la ancora più epica c’è Sir Ranulph Fiennes, quel tizio che il Guinness chiama "il più grande esploratore vivente" – e fidatevi, non è un complimento da poco per un britannico con la mania delle avventure estreme. Dopo otto spedizioni, Fiennes ha avuto la sua eureka moment: durante una chiacchierata con funzionari omaniti che lo prendevano in giro, ha spinto Zarins a scavare vicino a una sorgente. Risultato? Tre giorni dopo, spunta una scacchiera di ceramica vecchia 2000 anni, prova schiacciante di un insediamento. Fiennes l’ha raccontato nel suo libro "Atlantis of the Sands", trasformando Ubar in un viral ante litteram.

Infine, la riscoperta di Ubar getta luce sulla Via dell’Incenso come superstrada di affari e cultura nell’antica Arabia. Confrontandola con rovine come Mar’ib e Shabwa, si vede quanto fosse avanti quella civiltà pre-islamica, con architetture da capogiro in un paesaggio che ora è solo sabbia e vento. Insomma, un promemoria che il Medio Oriente non è solo petrolio e guai moderni – una volta era un hub di innovazione, prima che il clima rovinasse la festa. (Ah, se solo avessero pensato a un piano B per l’acqua!)

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