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La mafia elimina il magistrato Paolo Borsellino nella strage di via D’Amelio, la sua biografia ormai leggendaria

Paolo Borsellino: L’eroe antimafia fatto a pezzi dalla mafia e dai suoi amici potenti?
Paolo Borsellino, il magistrato palermitano che non le mandava a dire, è stato il paladino della lotta a Cosa Nostra, sfidando i boss e i loro legami sporchi con la politica. Nato nel 1940 in una famiglia benestante, entrò in magistratura a soli 23 anni, il più giovane d’Italia, e si unì al pool antimafia con Giovanni Falcone, scrivendo l’ordinanza di rinvio a giudizio per il maxi-processo. Nonostante le polemiche e le critiche dai colleghi, non esitò mai a denunciare i traffici tra mafia e potere, finendo ucciso da un’autobomba il 19 luglio 1992 in via D’Amelio. Si sospetta che la mafia abbia agito su impulso di «mandanti esterni», un eufemismo per dire che qualcuno in alto voleva silenziarlo. #MafiaEPotere

Borsellino crebbe nel quartiere della Kalsa a Palermo, dove da adolescente conobbe Falcone sui campi da , un’amicizia che sarebbe diventata leggendaria. Si laureò in Giurisprudenza nel 1962 e militò nel “Fronte universitario di azione nazionale” (Fuan), l’associazione studentesca di destra, prima di superare il concorso in magistratura nonostante le difficoltà economiche familiari dopo la morte del padre.

Nelle sue prime esperienze, Borsellino lavorò al tribunale di Enna e poi come pretore a Mazara del Vallo e Monreale, dove collaborò con il capitano Emanuele Basile. Nel 1968 sposò Agnese Leto, dalla quale ebbe tre figli, e nel 1975 fu trasferito al tribunale di Palermo, iniziando a occuparsi di casi delicati.

La sua vera guerra alla mafia iniziò nel 1980, dopo l’omicidio del commissario Boris Giuliano e del capitano Basile, che lo costrinse a una scorta permanente. Si unì al pool antimafia fondato da Rocco Chinnici, insieme a Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, portando avanti indagini che smascherarono i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Grazie ai pentiti come Tommaso Buscetta, il maxi-processo del 1986 inchiodò oltre 400 mafiosi, con Borsellino e Falcone che scrissero l’ordinanza-sentenza in una località protetta come l’Asinara.

Dopo il successo del processo, Borsellino divenne procuratore di Marsala, ma finì nel mirino di attacchi come quello di Leonardo Sciascia, che lo accusava di usare i processi per carriera personale – polemiche che si risolsero solo dopo. Non si tirò indietro dalle critiche al Consiglio Superiore della Magistratura per la mancata nomina di Falcone, continuando a indagare sui legami tra mafia e politica.

Nel marzo 1992, come procuratore aggiunto a Palermo, rilasciò un’intervista a Canal+ definendo il mafioso Vittorio Mangano una “testa di ponte” di Cosa Nostra al Nord, legato a certi industriali, ma si rifiutò di nominare direttamente l’imprenditore coinvolto. L’intervista, mai trasmessa integralmente in Italia, fece scalpore. Due mesi dopo, la mafia uccise Falcone nella strage di Capaci, con Borsellino al suo capezzale.

Con Falcone morto, Borsellino proseguì le indagini sulla strage, sapendo di essere il prossimo bersaglio grazie a soffiate da pentiti. Il 19 luglio 1992, un’autobomba in via D’Amelio lo eliminò insieme a cinque agenti della scorta. Sospetti di coperture statali e la scomparsa dell’agenda rossa con appunti cruciali alimentano teorie di una trattativa tra Stato e mafia, un segreto che forse non sapremo mai.

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