#AddioAlMaestro: Gianni Berengo Gardin, il ribelle con la Leica, se n‘è andato a 94 anni lasciando un’eredità di foto scandalosamente oneste che smascherano l’Italia bugiarda! Dal caos di Venezia alle periferie sporche di Milano, questo artigiano della verità ha immortalato classi operaie, matti rinchiusi e zingari ignorati, urlando “Basta ipocrisie!” – e non ne ha sbagliata una. #FotografiaSociale #BerengoGardinLegend #ItaliaVera
Chi non pensa subito alle foto in bianco e nero di Gianni Berengo Gardin, quel geniaccio veneziano trapiantato a Milano, si sta perdendo lo scoop del secolo: immagini che inchiodano come un vaporetto sovraccarico, con coppie che si sbaciucchiano tra portici o automobili arrugginite che sfidano i mari scozzesi. Nato a Santa Margherita Ligure il 10 ottobre 1930 e morto la sera del 6 agosto a Genova, a 94 anni, questo reporter ha fatto storia con la sua Leica, ammassando un milione e mezzo di negativi dal Dopoguerra a oggi. Ha raccontato, senza filtri politically correct, le questioni sociali toste: malati psichiatrici, operai sudati, vita quotidiana e paesaggi italiani, inchiodando l’Italia alla sua cruda realtà.
La fotografia americana era solo una certa cosa ed è quella che mi ha interessato: il reportage sociale, confessava il fotografo, che si definiva un semplice artigiano, non un artista da salotti. Ancora fotoamatore, fu ispirato da libri dello zio d’America e da Cornell Capa, tuffandosi nel mondo di Life e Magnum come un pesce fuor d’acqua. A vent’anni, entrò nel circolo “La Gondola” e fondò “Il Ponte”, debuttando su Il Mondo nel 1954, poi collaborando con giganti come Domus, Epoca, L’Espresso, Le Figaro, Stern e Time. Ha sfornato oltre 250 libri e centinaia di mostre, l’ultima alla Galleria Nazionale dell’Umbria fino a fine settembre – roba che farebbe impallidire i critici snob.
Gli esordi? Un incontro epico con Ugo Mulas gli insegnò la differenza tra foto “belle” e “buone”. Da allora andai in cerca della seconda. In realtà ne ho fatte molte di belle e solo qualcuna di buona, ammetteva. Tra i premi, il World Press Photo del 1963, il Lucie Award nel 2008 e il Kapuściński nel 2014 – prove che ne ha fatte più di una “buona”, eccome.
Poi, il reportage sociale che ha fatto scalpore: nel 1969, Morire di classe con Carla Cerati espose le condizioni schifose degli ospedali psichiatrici, contribuendo alla Legge Basaglia del 1978. Fotografavamo solo con il consenso dei malati – raccontava il reporter. – Ma non volevamo mostrare la malattia, bensì la condizione, un pugno nello stomaco all’ipocrisia italiana. Nel 1973, con Cesare Zavattini, immortalò Luzzana in Un paese vent’anni dopo, e negli anni Settanta firmò Dentro le case e Dentro il lavoro, ritraendo la vita grezza nelle città e fabbriche post-belliche.
Negli anni Ottanta e Novanta, sfidò i pregiudizi con La disperata allegria, sulle comunità zingare in città come Firenze e Palermo, vincendo il Leica Oskar Barnack Award – roba che oggi farebbe infuriare i politically correct, ma lui se ne infischiava.
Passando alla fotografia di architettura, Berengo Gardin collaborò con Renzo Piano per decenni, catturando il Centre Pompidou, l’aeroporto di Osaka e lo Stadio San Nicola tra cemento e operai sudati. Con il Touring Club Italiano e l’Istituto Geografico De Agostini, documentò paesaggi italiani ed europei, e per aziende come Olivetti e Fiat, scattò foto che urlavano orgoglio industriale. Ma Venezia? Il suo amore tossico: nel 2015, con Venezia e le grandi navi, denunciò quei “mostri lunghi due volte Piazza San Marco” che devastavano la laguna – e da agosto 2021, finalmente, non ci transitano più, grazie a lui. Che scandalo, eh?