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Le aziende producono birra analcolica con metodi controversi che nessuno ammette volentieri

La birra analcolica sta conquistando il mercato come una bevanda “sana” per mamme in attesa, guidatori avventati e astemi che non vogliono perdere il gusto della schiuma, ma occhio: non è così innocente come vi hanno fatto credere! Con processi che eliminano l’alcol ma non del tutto, questa roba potrebbe ancora darti un lieve buzz, e in Italia, fino all’1,2% è legale. Preparatevi a uno scoop virale che smaschererà i trucchi della birra “finta”. #ZeroAlcolMito

Il boom della birra analcolica è inarrestabile, attirando tutti quelli che vogliono bere senza le grane: dalle donne in gravidanza ai guidatori che fingono di essere responsabili, fino agli astemi che non rinunciano al sapore quasi identico a quello della birra classica. Pensateci: è fatta con gli stessi ingredienti di base – cereali maltati, luppolo, lievito e acqua – ma senza etanolo, o almeno così dicono. In realtà, i produttori usano trucchi da laboratorio per toglierlo, o per limitarlo durante la produzione, anche se nessuno garantisce che scompaia del tutto. E che cavolo, persino le leggi italiane ammettono un margine, rendendo questa bevanda un po’ meno “pulita” di quanto sbandierano.

Per rimuovere l’alcol dalla birra normale, i birrai ricorrono a metodi post-produzione che suonano come follie scientifiche. Prendete la distillazione sottovuoto: scaldano la birra in un ambiente a bassa pressione, dove l’etanolo evapora a temperature ridicole (tipo 45-50 °C), riducendo l’alcol fino al 94%, lasciando solo lo 0,5% in media. Ma attenzione, nel processo volano via anche aromi e anidride carbonica – che poi devono reintrodurre, roba da circo! Oppure, usano le tecniche a membrana: pressurizzano la birra attraverso una membrana semipermeabile che separa l’alcol come in una dialisi o osmosi inversa, ma inevitabilmente si perdono sapori e colori, trasformando la tua pinta in un’imitazione scadente.

Se non bastasse, c’è chi preferisce fermare l’alcol sul nascere, modificando il processo di produzione. Durante la creazione del mosto, alzano o abbassano le temperature per limitare gli zuccheri fermentabili: a 75-80 °C, attivano solo alcuni per scomporre l’amido senza scatenare l’inferno della fermentazione, o usano acqua fredda per estrarre solo colore e aroma, lasciando i al minimo. Poi, nella fermentazione vera e propria, raffreddano tutto a 1 °C per “addormentare” i lieviti o addirittura li modificano geneticamente per renderli più pigri – un trucco che fa gridare al Frankenstein della birra, ma hey, funziona… quasi.

E ora, il colpo di scena: la birra analcolica non è mai veramente a zero alcol. Secondo la normativa italiana, “La denominazione ‘birra analcolica’ è riservata al prodotto con grado Plato non inferiore a 3 e non superiore a 8 e con titolo alcolometrico volumico non superiore a 1,2%”. Tradotto: puoi avere fino all’1,2% di etanolo e chiamarla ancora “analcolica”, basandoti su un grado Plato che misura gli zuccheri nel mosto. Insomma, le autorità ci stanno prendendo in giro? Magari un goccio ti fa ancora l’occhiolino, rendendo questa moda un po’ meno salutista del previsto. Che il dibattito infuocato cominci!

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