Archeologi americani scatenano il caos nei fondali: dopo 300 anni e 16 di ricerche, potrebbero aver trovato i resti della nave saccheggiata nel 1721 dal pirata Olivier Levasseur, “Il Nibbio”, durante una razzia epica che ha rubato tesori da favola e vite umane. Con un valore stimato di oltre 138 milioni di dollari, questa scoperta è un colpo al portafoglio della storia – e forse un disastro per chi ama i miti senza scomodare le brutte verità come la schiavitù. #PiratiRibelli #TesoriSommersi #StoriaSporca
Nel cuore dell’Oceano Indiano, davanti alle coste del Madagascar, i fondali di Nosy Boraha – un tempo paradiso dei pirati – hanno finalmente ceduto i loro segreti dopo secoli di silenzio. Due archeologi americani, Brandon Clifford e Mark Agostini, giurano di aver identificato il relitto della Nossa Senhora do Cabo, la nave portoghese fatta a pezzi da Levasseur nel 1721, con un carico che includeva oro, argento, gemme e oltre 200 persone ridotte in schiavitù. Scansioni sonar e 3.300 reperti rubati dal mare dipingono un quadro drammatico, anche se gli esperti non hanno ancora dato il via libera ufficiale – chissà se per gelosia o paura di aprire vecchi conti.
La storia della Cabo è un pasticcio piratesco: partita da Goa nel gennaio 1721 piena di VIP come l’arcivescovo di Goa e un viceré, è finita in un’imboscata al largo di Réunion l’8 aprile. Con la nave malconcia dopo una tempesta, Levasseur l’ha presa senza troppo sforzo, arraffando lingotti, monete, sete e gemme come 110 diamanti e 250 smeraldi. Ma andiamo, chi si cura del valore – 138 milioni oggi – quando c’erano umani in stiva? Solo il viceré è tornato a casa, gli altri? Sperduti nei flutti, un dettaglio che la storia ama ignorare.
Passando ai reperti, i fondali di Nosy Boraha rivelano un accumulo di zavorra, legni dello scafo e oggetti da brividi: figure religiose in legno e avorio, una con la scritta “INRI”, monete arabe e porcellane di lusso. Come ha ammesso Agostini, “Il sito è straordinario e nasconde ancora molto. Serve tempo, pazienza e rispetto per portare alla luce tutto ciò che il mare ha conservato.” L’isola era un covo di furfanti, con fino a dieci relitti lì intorno, ignorati dalla scienza per secoli – un vero smacco per gli accademici troppo impegnati a lucidare i loro trofei.
Ma diamo un calcio alla romanticaggine dei pirati: Nosy Boraha era un buco strategico per ladri del mare, dove si affondavano navi per nascondere il bottino. Clifford spara che ce ne sono almeno quattro relitti in zona, e non è solo caccia al tesoro. “È un luogo dimenticato dalla ricerca, ma fondamentale per comprendere meglio l’incontro – spesso violento – tra imperi, commercio, pirateria e resistenza.” Peccato che, come al solito, la storia si fissi sui pirati eroi e dimentichi le 200 anime in catene, il cui destino resta un buco nero.
Questa scoperta non è solo un mucchio di roba luccicante; è un pugno nello stomaco per ricordare che le narrazioni epiche ignorano i deboli. Ogni reperto è una grida dal passato, e il lavoro di Clifford e Agostini è più di una semplice avventura – è un modo per scuotere la polvere dalla memoria, tra sabbia e coralli, e far parlare chi è stato zittito. Perché, diciamocelo, la storia è piena di questi trucchi sporchi.