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Aumentano le zanzare in autunno e inverno a causa delle temperature e dell’inquinamento luminoso

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Negli ultimi anni si sono registrati aumenti significativi di presenti nelle abitazioni anche durante il periodo autunnale e invernale. Questo fenomeno è attribuibile al riscaldamento globale che ha portato a temperature medie più elevate, in particolare nelle aree urbane definite “isole di calore”, così come all’influenza dell’illuminazione notturna. Le temperature miti e le prolungate ore di luce stanno ritardando l’ingresso delle zanzare nella loro fase di quiescenza invernale, nota come diapausa.

Il ciclo vitale delle zanzare e in che periodo sono attive

Le zanzare mostrano il loro massimo attivismo nelle calde temperature estive, entrando poi in diapausa nella fase adulta quando iniziato il periodo autunnale, influenzate dalla diminuzione della temperatura e dalla riduzione delle ore di luce. Nella specie comune, Culex pipiens, la diapausa si verifica dopo che le temperature diventano più fresche e le giornate più corte. La zanzara tigre, Aedes albopictus, affronta il periodo invernale principalmente come uovo, poiché la femmina non sopravvive alle basse temperature. Essa depone, quindi, in rifugi sicuri migliaia di uova che si schiuderanno con l’arrivo del caldo.

Perché le zanzare sono attive anche in inverno e nei mesi freddi

In queste latitudini, la diapausa della zanzara comune dipende da un fotoperiodo inferiore a dodici ore e da una temperatura inferiore a 18 °C. Tuttavia, i cambiamenti climatici stanno influenzando i cicli vitali di questi insetti, accorciando la diapausa a di fattori come un autunno mite, le isole di calore e l’inquinamento . La luce artificiale può interrompere la diapausa, prolungando la sopravvivenza degli esemplari nelle aree urbane.

Inquinamento luminoso e zanzare

Studi in laboratorio hanno evidenziato che l’esposizione a temperature elevate, simili a quelle delle isole di calore, può stimolare lo sviluppo ovarico e la ricerca di sangue da parte delle femmine anche in . Ricerche effettuate negli Stati Uniti hanno mostrato che brevi aumenti di temperatura in autunno possono mantenere fertile la femmina di Culex e indurla a nutrirsi di sangue anche nella parte finale della stagione.

La sopravvivenza delle zanzare in inverno e la salute pubblica

Le alterazioni delle temperature stagionali non solo favoriscono la sopravvivenza di specie esotiche, ma anche la diffusione di malattie virali tipiche di regioni tropicali e subtropicali. Le zanzare del genere Culex sono vettori per il virus della Febbre del Nilo Occidentale e la zanzara tigre, Aedes albopictus, è veicolo per diverse malattie virali, tra cui Dengue, Chikungunya, Zika e Febbre gialla.

Zanzara tigre inverno

Nei climi tropicali, le popolazioni di zanzara tigre rimangono attive tutto l’anno. Tuttavia, anche in altre aree geografiche, la prolungata attività di queste zanzare in inverno e il ritardo della diapausa costituiscono una minaccia poiché consentono ai vettori di mantenere la capacità di trasmissione di virus anche nel periodo autunnale.

La comprensione dei meccanismi di adattamento delle zanzare è cruciale per elaborare strategie di prevenzione efficaci. A tal fine, un’iniziativa di monitoraggio chiamata “Mosquito Alert” è stata lanciata in diversi paesi europei per studiare la diffusione delle zanzare invasive, potenziali portatori di malattie come Zika, Dengue e Febbre del Nilo Occidentale.

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Ecco la differenza tra correlazione e causalità.

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I dati sono uno strumento fondamentale per capire il mondo e prendere decisioni informate. Tuttavia, l’interpretazione corretta di tali dati può risultare complessa. Due fenomeni possono presentarsi nel in modo tale da far sembrare uno la causa dell’altro, tuttavia trattarsi di una semplice coincidenza o dell’esistenza di un terzo evento che influenza entrambi. Distinguere tra coincidenze e veri rapporti di causa-effetto è cruciale in ambiti come la sanità, la politica e l’economia, dove le decisioni si basano sull’interpretazione dei dati. Questo articolo esplora il significato della tra fenomeni, le correlazioni spurie e l’importanza di non confondere la correlazione con la causalità.

Fenomeni che sembrano legati tra loro, ma non lo sono

Un esempio illustrativo è il grafico che indica se la riduzione del consumo di gelati porta a una diminuzione dei divorzi in Alabama. Evidentemente, la quantità di gelato consumata negli Stati Uniti non ha alcuna influenza sul numero di divorzi in Alabama, ma un’analisi superficiale dei dati potrebbe far pensar ad un legame.

ImmagineGrafico che mostra l’andamento nel tempo del consumo di gelato (in nero) e numero di divorzi in Alabama (in rosso). I due grafici sono simili, ma chiaramente i due eventi non sono uno causa dell’altro. Credit: Chart by Tyler Vigen, tylervigen.com, CC BY 4.0

Dal 1999 al 2020, il consumo di gelato negli Stati Uniti e il numero di divorzi in Alabama hanno mostrato un trend decrescente. Questo comportamento simile potrebbe far pensare che una riduzione del consumo di gelato possa associarsi a una diminuzione dei divorzi. Tuttavia, è fondamentale considerare che tale correlazione potrebbe derivare da una terza variabile che non è stata presa in considerazione.

Due variabili sono correlate quando cambiano insieme

Due variabili si definiscono correlate quando la variazione di una è accompagnata dalla variazione dell’altra. La correlazione esprime questa tendenza e può essere rappresentata attraverso un coefficiente compreso tra – e 1:

  • 1: correlazione positiva, con un aumento di una variabile corrisponde anche un aumento dell’altra.
  • -1: correlazione negativa, con un aumento di una variabile corrisponde una diminuzione dell’altra.
  • 0: nessuna correlazione, le due variabili procedono in modo indipendente.

correlazione positiva negativa

Ad esempio, il numero di ciabatte da mare vendute e il numero di persone attaccate da una medusa durante l’estate e diminuiscono in inverno, evidenziando una correlazione. Tale somiglianza può portare a pensare erroneamente a un nesso causale tra i fenomeni, ma è importante non cadere in questa trappola mentale.

Correlato non vuole per forza dire causativo

Una correlazione forte non implica necessariamente una relazione causale. Nell’esempio delle ciabatte e delle punture di medusa, entrambi i fenomeni sono correlati senza che l’uno causi l’altro. L’acquisto di ciabatte non aumenta il rischio di un attacco di medusa, né viceversa. Per stabilire un rapporto di causalità, è necessario adottare tecniche di inferenza causale, utili per isolare il vero nesso tra cause ed effetti.

correlazione causalità

Quando si fanno analisi su coincidenze del tipo gelati-divorzi o ciabatte-punture, ci si trova di fronte a correlazioni spurie.

Cosa sono le correlazioni spurie

Una correlazione spuria si verifica quando due o più variabili appaiono correlate senza un vero legame causale. Questa situazione può derivare da una coincidenza o dall’esistenza di un fattore confondente. L’esempio dei divorzi e dei gelati mette in luce questa problematica, mostrando una correlazione elevata (0.967) senza legame causale. Altri esempi curiosi, come il numero di birrifici negli Stati Uniti rispetto all’energia solare generata in Perù (correlazione = 0.978) o il numero di lauree triennali in psicologia rispetto al numero di giardinieri in Utah (correlazione = 0.990), evidenziano come spesso queste correlazioni siano il frutto del caso.

Nell’analisi delle punture di medusa e della vendita di ciabatte, la correlazione è determinata da un fattore confondente, l’andare al mare, che connette entrambe le variabili. Se una persona va al mare, avrà bisogno di infradito e l’esposizione all’acqua incrementa il rischio di attacchi da parte delle meduse. Questo illustrando come variabili esterne possano influenzare eventi senza una relazione di causalità diretta.

Comprendere e saper distinguere tra correlazione e causalità è cruciale per la presa di decisioni informate in settori vitali come la medicina, la politica e l’economia.

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Il Paese leader nella produzione di uranio potrebbe presto diventare il Canada

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L’uranio sta riconquistando l’attenzione globale grazie all’interesse crescente verso l’energia nucleare, considerata una potenziale soluzione alla crisi climatica da parte di diverse nazioni. Il Canada, con i suoi giacimenti di uranio purissimo e la capacità di arricchirlo direttamente sul proprio territorio prima dell’esportazione, potrebbe affermarsi come una potenza nel settore nucleare. In particolare, il Bacino di Athabasca, situato nel Saskatchewan, ospita una delle riserve di uranio più grandi e ad alta purezza al mondo.

La crescita della domanda di uranio e le riserve in Canada

Attualmente, il Canada è il secondo maggiore produttore di uranio a livello globale, con una quota di circa il 13% della totale. Nel 2022, il ha estratto circa 7.400 tonnellate di uranio, un volume nettamente inferiore alle 21.200 tonnellate prodotte dal Kazakistan, il principale produttore dal 2009. L’Australia completa il podio come terzo produttore mondiale. Questi tre Paesi possiedono oltre la metà delle riserve di uranio globali.

Attualmente, l’energia nucleare rappresenta solo il 10% del mix energetico mondiale. Questa percentuale relativamente bassa è attribuibile alle preoccupazioni pubbliche riguardanti la sicurezza degli impianti nucleari e ai rischi associati alla gestione dei rifiuti radioattivi. Gli incidenti, come quello di Fukushima, hanno accentuato le esitazioni nei confronti di questa tecnologia. Tuttavia, la crescente necessità di fonti energetiche pulite potrebbe modificare significativamente questa situazione nei prossimi anni. Recentemente, l’attenzione di numerosi Paesi è tornata sul nucleare, considerato una risorsa rinnovabile, conveniente e con una minima impronta di carbonio.

Un indicativo cambiamento di direzione è emerso durante la COP28, tenutasi a Dubai nel dicembre 2023, quando 25 nazioni hanno siglato un accordo per stimolare gli investimenti nelle tecnologie nucleari e triplicare la produzione di energia nucleare entro il 2050. Tra i firmatari figurano le principali potenze mondiali, tra cui Stati Uniti, Canada, Francia e Regno Unito. L’aumento della domanda di uranio nei prossimi decenni potrebbe quindi rafforzare ulteriormente il ruolo del Canada come attore principale nel mercato globale dell’uranio.

I giacimenti di uranio più puri del mondo in Canada

Il Bacino di Athabasca, nel Saskatchewan, è il principale area di estrazione dell’uranio canadese e ospita le riserve più ricche al mondo, con concentrazioni che arrivano fino al 20%. Le riserve globali, invece, presentano concentrazioni di uranio di gran inferiori, oscillando tra lo 0,% e l’1%. L’alta concentrazione di uranio consente un processo di estrazione più rapido ed economico, con benefici significativi in termini di sostenibilità ambientale.

Uranio naturale. Credits: Britannica.
Uranio naturale. Credits: Britannica.

Il Canada sta cercando di ampliare la propria produzione di uranio in risposta all’aumento della domanda globale. Attualmente, oltre 100 aziende sono coinvolte nelle operazioni di esplorazione e sviluppo di nuovi giacimenti, e si prevede che la produzione canadese possa crescere del 7% entro il 2027, consolidando così la posizione del Paese nel mercato globale dell’uranio.

Arricchimento dell’uranio ed esportazione

Circa l’85% dell’uranio prodotto in Canada è destinato all’esportazione, mentre il restante 15% viene utilizzato nei reattori nucleari canadesi, conosciuti con l’acronimo CANDU (Canadian Deuterium-Uranium). Il Kazakistan, principale producer, esporta tre volte più uranio rispetto al Canada, ma non arricchisce il suo prodotto. L’arricchimento dell’uranio è un processo in cui la concentrazione dell’isotopo fissile U235 viene aumentata, un’operazione che il Canada effettua direttamente sul suo territorio, conferendogli un vantaggio sia logistico che geopolitico. Questo riduce i tempi e i costi di trasporto, offrendo una valida alternativa per i Paesi che cercano di non dipendere da Russia e Cina per l’uranio arricchito.

Attualmente, il 64% dell’uranio canadese esportato va verso le Americhe, il 19% verso l’Asia e il 17% verso l’Europa.

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Distribuzione delle miniere di uranio e delle centrali nucleari sul territorio canadese. Credits: Government of Canada.

Utilizzo sul suolo canadese

Il Canada non si limita a potenziare la produzione di uranio arricchito per soddisfare la domanda internazionale, ma si distingue anche per la ricerca e l’utilizzo di questa risorsa in diversi settori, tra cui quello medico e industriale. Attualmente, il Paese ospita sei centrali nucleari, con un totale di 19 reattori, capaci di generare 4.629 megawatt di energia, posizionando la nazione al sesto posto nel mondo per la produzione energetica nucleare. L’espansione dell’industria nucleare canadese, sia nel settore energetico che in ambiti scientifici e industriali, offre significative opportunità di sviluppo per il Paese.

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Il dispositivo anti-guida in stato di ebbrezza Alcolock e il suo funzionamento nel nuovo Codice della Strada

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Il della Strada 2024, recentemente approvato al Senato, introduce l’obbligo dell’installazione dell’ in determinate circostanze. Questo dispositivo funge da barriera contro la guida in stato di ebbrezza, operando tramite un etilometro integrato nell’auto che si collega alla centralina di accensione del motore. Prima di avviare il veicolo, il conducente deve eseguire un test soffiando nel dispositivo. Se il tasso alcolemico risulta superiore a zero, il motore non può essere avviato. L’alcolock è già in uso in vari Paesi europei, dove è obbligatorio per alcune categorie di lavoratori e per chi ha precedenti di guida in stato di ebbrezza. In Italia, la normativa prevede la sua introduzione per i recidivi, con regole specifiche per quanto riguarda durata e modalità d’uso.

Funzionamento e obbligo di installazione

L’alcolock si inserisce in un contesto normativo sempre più rigoroso. Il nuovo Codice della Strada stabilisce tolleranza zero per chi guida in stato di ebbrezza, prevedendo l’obbligo di installazione del dispositivo dopo una sanzione per guida con tasso alcolemico superiore a 0,8 grammi per litro. Tecnologicamente, l’alcolock, noto anche come IID (Ignition Interlock Device) o BAIID (Breath Alcohol Ignition Interlock Device), utilizza etilometri per analizzare l’aria espirata. Il dispositivo, tramite sensori, misura il tasso alcolemico del conducente e, in caso di superamento del limite, impedisce l’avvio del motore. Tuttavia, nonostante i benefici, si sono registrati casi di falsi positivi, rendendo necessarie tarature periodiche e un’adeguata manutenzione.

Nei Paesi dove l’alcolock è già adottato, si è osservato un calo del 75% delle recidive. Tuttavia, la sua introduzione in Italia richiederà del . Oltre all’approvazione del Codice, sarà necessario un decreto attuativo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per definire le specifiche tecniche, i modi di installazione e i costi, stimati intorno ai 1.500 euro a carico dell’automobilista. Rimane da chiarire come il dispositivo verrà installato su veicoli più datati che non dispongono delle centraline moderne necessarie e se sarà previsto un elenco di officine autorizzate per l’installazione e la manutenzione.

Limiti alcolici e relative sanzioni

Il nuovo Codice della Strada stabilisce anche specifici limiti alcolici e le sanzioni associate al loro superamento. Di seguito un riassunto delle principali disposizioni:

  • 0,5-0,8 grammi per litro: sanzione tra 573 e 2.170 euro e sospensione della patente da 3 a 6 mesi.
  • 0,8-1,5 grammi per litro: sanzione tra 800 e 3.200 euro, con arresto fino a 6 mesi e sospensione della patente da 6 a 12 mesi; obbligo di alcolock al termine della sospensione.
  • Superiore a 1,5 grammi per litro: arresto da 6 a 12 mesi, sospensione della patente da 12 a 24 mesi e multa tra 1.500 e 6.000 euro.

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Reazione a catena della polimerasi: un processo per amplificare il materiale genetico e ottenere molte copie.

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La reazione a catena della polimerasi (PCR) è una metodologia innovativa adottata in medicina e nella biologia molecolare, finalizzata alla produzione di innumerevoli copie di una specifica sezione di DNA, tra cui singoli geni. Questo procedimento, noto come amplificazione, permette a scienziati e professionisti del settore di ottenere un campione di DNA sufficiente per l’ approfondita, partendo da una quantità inizialmente limitata.

Applicazioni della PCR

Le copie di DNA generate attraverso la PCR hanno una vasta gamma di applicazioni che vanno dalla ricerca di base alla diagnostica delle malattie, ai test di agricoltura e alle indagini forensi. Un esempio significativo è dato dal Progetto Genoma Umano, che ha utilizzato ampiamente la PCR nelle sue analisi di mappatura.

Questa tecnica è considerata tra i progressi più significativi in biologia molecolare, cambiando radicalmente il modo in cui viene studiato il DNA. Il inventore, Kary B. Mullis, insieme a Michael Smith, ha ricevuto nel 1993 il premio Nobel per la chimica per il suo contributo in questo campo.

Funzionamento della DNA polimerasi

La PCR riproduce in vitro un particolare passaggio della duplicazione cellulare che normalmente è svolto dalla DNA polimerasi, un enzima chiave per la sintesi del DNA presente in tutti gli organismi viventi. Questo enzima è fondamentale per replicare in modo preciso ed efficace il genoma, garantendo così la trasmissione corretta delle informazioni genetiche attraverso le generazioni. In particolare, la polimerasi catalizza la polimerizzazione dei 2′-desossiribonucleotidi lungo un filamento di DNA, utilizzando il filamento stesso come modello.

La reazione di polimerizzazione si attua attraverso l’incorporazione di 2′-desossinucleoside-5′-trifosfati, che si convertono in 2′-desossinucleoside-5′-monofosfati, con un rilascio di pirofosfato. L’inserimento di nucleotidi avviene seguendo il principio di complementarità, garantendo che il filamento appena sintetizzato sia identico a uno dei filamenti della doppia elica del DNA.

Ciclo della PCR

Il ciclo della PCR si articola in tre fasi. La prima, denominata denaturazione, vede il riscaldamento del DNA a doppio filamento a di 94-95°C per un intervallo di 15-30 secondi. Questo processo provoca la rottura dei legami idrogeno tra le basi, separando così i due filamenti.

La fase di denaturazione porta quindi alla creazione di due filamenti singoli, che fungeranno da stampi per le nuove copie. È cruciale mantenere la temperatura per un sufficiente a completare questa separazione. Successivamente, si passa alla fase di ricottura, in cui la temperatura è abbassata per facilitare il legame dei primer di DNA a punti specifici del filamento stampo. Questa fase dura normalmente tra 10 e 30 secondi e si svolge a temperature comprese tra 50 e 65°C.

In questa fase, i primer servono come punto di partenza per la sintesi del DNA, creando una breve regione di DNA a doppio filamento per l’enzima polimerasi. Una volta legato il primer, la polimerasi può agire per costruire il nuovo filamento complementare, il passo di estensione.

Infine, l’ultima fase, l’estensione, viene eseguita aumentando la temperatura a 72°C per permettere alla Taq DNA polimerasi di generare nuovo DNA. Questo enzima, estratto da batteri termofili come l’Thermus aquaticus, è in grado di rimanere attivo anche a temperature elevate, permettendo di realizzare la PCR senza dover aggiungere nuove polimerasi ad ogni ciclo.

Uso del termociclatore

Il processo di PCR viene ripetuto per un numero compreso tra 20 e 40 cicli, raddoppiando le copie di DNA ad ogni passaggio grazie a una progressione geometrica. Questo rende la tecnica particolarmente utile per molteplici applicazioni, come le analisi forensi o l’esame di campioni con poche cellule.

Un termociclatore, specificamente progettato per controllare il trasferimento di calore e mantenere temperature precise, esegue la reazione a catena della polimerasi. Questo può essere programmato su misura per ogni fase del protocollo PCR e consente di memorizzare più protocolli per impieghi futuri.

Caratteristiche cruciali di un termociclatore standard includono un blocco campione in metallo termoconduttore, moduli termoelettrici per un rapido riscaldamento e raffreddamento, e un coperchio riscaldato per prevenire l’evaporazione dei campioni. Grazie all’uso di moduli termoelettrici, il termociclatore riesce a combinare i requisiti di riscaldamento e refrigerazione, completando la PCR in tempi che variano da meno di un’ora a diverse ore a seconda della velocità della macchina.

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Integrine: molecole chiave per l’adesione cellulare e la comunicazione del microambiente cellulare.

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Le integrine sono delle proteine trasmembrana che svolgono un ruolo cruciale nella mediazione dell’adesione cellulare e nella migrazione verso altre cellule o la matrice extracellulare. Esse sono essenziali per permettere alle cellule di intraprendere percorsi sia fisiologici che patologici.

Funzione delle integrine

Queste proteine fungono da principali recettori sulla superficie cellulare, responsabili dell’adesione cellulare alle proteine della matrice extracellulare (ECM), tra cui fibrina, elastina, fibronectina, laminina ed entactina. Le integrine hanno la capacità di rilevare aspetti variegati del microambiente, tra cui sia la che la composizione della matrice, oltre ai segnali biochimici derivanti dalla stimolazione di fattori di crescita o citochine.

In aggiunta, le integrine sono in grado di trasdurre segnali meccanochimici provenienti dall’esterno e dall’interno, stabilendo una comunicazione bidirezionale attraverso la membrana cellulare. Esse partecipano a numerosi processi biologici, come la sopravvivenza cellulare, l’infiammazione, l’immunità, le infezioni, la trombosi e l’angiogenesi.

Struttura delle integrine

La struttura delle integrine presenta una configurazione simile a una grande “testa” sorretta da due “gambe”, dove la testa contiene i siti cruciali per il legame dei ligandi e l’associazione delle subunità. Quasi tutta la parte del dimero recettore si estende extracellularmente, ma entrambe le subunità attraversano la membrana plasmatica, terminando con brevi domini citoplasmatici.

Questi ultimi sono fondamentali in quanto avviano l’assemblaggio di complessi di segnalazione di ampie dimensioni e collegano la matrice extracellulare al citoscheletro presente all’interno della cellula. La formazione delle integrine avviene per associazione non covalente tra due glicoproteine trasmembrana: la subunità α e quella β. Le porzioni extracellulari delle subunità contengono rispettivamente circa 700 e 1000 aminoacidi.

Ogni subunità presenta una singola elica che attraversa la membrana, seguita da una breve coda citoplasmatica non strutturata. La catena α si compone di quattro o cinque domini extracellulari, mentre la subunità β è caratterizzata da sette domini con interconnessioni flessibili e intricate. Diciotto forme della catena α e otto della catena β si combinano per costituire un totale di 24 eterodimeri, classificabili in vari gruppi a seconda delle caratteristiche ligandi.

Liganti e regolazione dell’adesione

Il legame con i ligandi delle integrine è affascinante poiché, sebbene diverse integrine possano legarsi allo stesso ligando extracellulare, tendono a riconoscere siti distinti su di esso. Alcune integrine interagiscono con lo stesso sito, ma necessitano di sequenze aggiuntive per mantenere un’elevata affinità. Le cellule, modulando l’espressione delle integrine nella membrana plasmatica, possono accrescere la loro capacità di legarsi alla matrice.

La regolazione dell’attività delle integrine avviene attraverso cambiamenti conformazionali che l’affinità per i ligandi extracellulari. Per esempio, nei processi di emostasi e immunità, l’adesione mediata dalle integrine deve essere suscettibile a variazioni controllate. La forma cellulare, la diffusione laterale delle integrine e il loro clustering sono elementi che rendono possibile questa regolazione, influenzata dall’organizzazione del citoscheletro.

In conclusione, l’adesione cellulare alla matrice extracellulare è mediata principalmente dalle integrine. Questi recettori eterodimerici, composti da differenti subunità α e β, attivano segnali mediante clustering indotto dal ligando e hanno la capacità di interagire con una vasta gamma di ligandi, rendendo cruciale il loro ruolo nel determinare molte delle funzioni cellulari, compresa la proliferazione.

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Polisaccaridi complessi: i glicosamminoglicani nella salute e nella biologia cellulare.

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I glicosamminoglicani, noti anche come mucopolisaccaridi, sono molecole polisaccaridiche lineari composte da unità disaccaridiche ripetute. Il termine “glico-” fa riferimento al galattosio o a zuccheri uronici, come l’acido glucuronico o l’acido iduronico, che sono connessi a amminoglicani, come la N-acetilglucosamina o la N-acetilgalattosammina. Queste molecole possono contenere uno o entrambi i monosaccaridi con gruppi solfato o carbossilato.

Tipi di glicosamminoglicani

La varietà di glicosamminoglicani presenti nelle matrici extracellulari dei tessuti dipende dal tipo di blocchi zuccherini. Sono fondamentali componenenti dei proteoglicani, ai quali si legano formando catene che interagiscono con diversi componenti della matrice extracellulare (ECM), come laminina, collagene e fibronectina. Questi legami sono cruciali per l’adesione e la migrazione cellulare.

In base alle unità disaccaridiche ripetute che li compongono, i glicosamminoglicani possono essere suddivisi in quattro categorie principali: eparina (HP)/eparan solfato (HS), condroitin solfato (CS)/dermatan solfato (DS), cheratan solfato (KS) e ialuronano (HA). Il condroitin solfato, in particolare, è una molecola comune che presenta una catena di unità alternate formata da N-acetil-galattosammina e acido glucuronico. Le catene di condroitin possono includere oltre 100 di queste unità, ciascuna delle quali può essere non solfatata o presentare diverse solfatazioni.

Processo di sintesi

La biosintesi dei glicosamminoglicani ha origine nel citoplasma cellulare, dove cinque zuccheri attivati, derivanti dall’uridina difosfato (UDP), iniziano a essere sintetizzati. Tra questi zuccheri ci sono l’UDP-glucuronico, l’UDP-N-acetilglucosamina, l’UDP-xilosio, l’UDP-galattosio e l’UDP-N-acetilgalattosammina. Successivamente, questi zuccheri attivati dal citoplasma vengono traslocati nell’apparato del Golgi.

Un’eccezione a questa via biosintetica è rappresentata dall’acido ialuronico. I precursori dell’acido ialuronico, in particolare l’UDP-glucuronico e l’UDP-N-acetilglucosamina, non subiscono modifiche nell’apparato del Golgi; piuttosto, vengono trasportati direttamente alla membrana plasmatica per ulteriori elaborazioni. Gli altri glicosamminoglicani, invece, necessitano di una serie di modifiche, come la solfatazione, tramite il composto donatore di solfato 3′-fosfoadenosina-5′-fosfosolfato (PAPS). Nel Golgi, i glicosamminoglicani solfatati si legano covalentemente a proteine di ancoraggio, formando proteoglicani.

Per quanto riguarda il processo di ancoraggio, i glicosamminoglicani come l’eparina/eparan solfato, il condroitin solfato e il dermatan solfato si collegano al nucleo proteico attraverso un residuo di amminoacido serina, utilizzando un comune linker tetrasaccaridico. Il cheratan solfato, al contrario, è l’unico glicosamminoglicano solfatato che non si lega a un nucleo proteico tramite questo meccanismo, ma si associa attraverso diversi altri composti, a seconda del sottotipo di cheratan solfato.

Ruolo fisiologico

I glicosaminoglicani giocano un ruolo fondamentale nel modulare le vie di segnalazione cellulari, essenziali per una crescita cellullare adeguata e per l’angiogenesi. Intervengono anche in una serie di processi, quali la crescita cellulare, lo sviluppo neuronale, l’invasione virale, e le malattie neurodegenerative. Inoltre, promuovono la proliferazione, l’adesione cellulare, l’anticoagulazione e la riparazione dei tessuti.

Queste molecole interagiscono con una vasta gamma di proteine, fra cui proteasi, fattori di crescita, citochine, chemiochine e molecole di adesione. Tali interazioni consentono ai glicosaminoglicani di mediare numerosi processi fisiologici, come l’adesione cellulare e la segnalazione proteica. Le interazioni tra GAG e proteine giocano un ruolo significativo in diverse patologie, tra cui malattie cardiovascolari e infettive, contribuendo alla formazione di ossa, cartilagini, tendini, pelle e tessuti connettivi. Ad esempio, il cheratan solfato presente nella cornea regola la spaziatura delle fibrille di collagene, importante per garantire la chiarezza ottica, oltre a ottimizzare l’idratazione corneale durante il sviluppo per mezzo delle interazioni con le molecole d’acqua.

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Putrescina: proprietà e utilizzi in ambito biologico e industriale.

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La putrescina, scientificamente nota come ,4-diamminobutano e con formula chimica NH2(CH2)4NH2, rientra nella categoria delle poliammine. Questi composti, caratterizzati dalla presenza di due o più gruppi amminici, sono reperibili in tutti i tessuti e le cellule di organismi viventi, compresi microrganismi, piante e animali. Le poliammine svolgono un ruolo cruciale in numerosi processi cellulari, influenzando la delle macromolecole, l’espressione genica, la funzione delle proteine, la sintesi di acidi nucleici e proteine, la regolazione dei canali ionici e la protezione contro danni ossidativi.

Funzioni biologiche

Le poliammine naturali, come spermidina e spermina, insieme alla putrescina, rivestono un’importanza significativa per lo sviluppo e il del sistema nervoso. Questi composti influenzano diverse funzioni neurofisiologiche e metaboliche, incluso il rilascio di neurotrasmettitori dipendenti dal calcio.

La putrescina, accanto alla cadaverina (1,5-diamminopentano) – anch’essa originariamente descritta nel 1885 dal medico berlinese Ludwig Brieger – è un composto dalle forti connotazioni maleodoranti derivante dalla decomposizione degli amminoacidi in organismi sia vivi che morti. Questa sostanza è nota per la sua elevata tossicità.

Nel 1889, la putrescina è stata isolata per la prima volta dal batterio Vibrio cholerae. Il nome è una chiara allusione alla sua presenza nella carne in fase di degradazione, da cui deriva anche il cattivo odore comune associato alla carne in putrefazione, nonché alla propria parte nel causare alito cattivo e vaginosi batteriche.

Caratteristiche chimiche

La putrescina si presenta come un solido cristallino bianco, con una temperatura di fusione intorno a 27°C e un intervallo di ebollizione tra 158 e 160°C. Si tratta di un composto a basso peso molecolare, altamente solubile in acqua, che può raggiungere elevate concentrazioni in prodotti lattiero-caseari fermentati, come formaggi e pesce. Grazie alla presenza di due gruppi amminici primari, la putrescina manifesta un carattere basico.

Con un valore di Kb1 pari a 6.3 · 10-4 e Kb2 pari a 2.5 · 10-5, entrambi superiori a quella dell’ammoniaca, la putrescina si presenta protonata a pH fisiologico, assumendo una forma policationica in grado di interagire con macromolecole caricate negativamente come proteine e acidi nucleici, stabilizzandone le strutture.

La biosintesi della putrescina nei mammiferi avviene principalmente per mezzo della L-ornitina decarbossilasi. Alcuni organismi, diversi dai mammiferi, possono generare la putrescina attraverso un percorso alternativo che coinvolge la L-arginina decarbossilasi. Recenti studi suggeriscono che un percorso mediato dalla L-arginina decarbossilasi permetta di ottenre putrescina tramite agmatina anche nei tessuti dei mammiferi.

La generazione della putrescina avviene attraverso una serie di reazioni enzimatiche con altre poliammine come substrati; l’arginina è il precursore principale per poi trasformarsi in ornitina, prodotta nel fegato tramite il ciclo dell’urea. L’ornitina viene quindi decarbossilata dall’enzima ornitina decarbossilasi, il quale rappresenta un passaggio chiave nella sintesi delle poliammine e produce putrescina, che è a sua volta un precursore per la spermidina e la spermina.

Nel panorama biotecnologico, la putrescina può essere estratta tramite un metodo biocatalitico che utilizza Escherichia coli con L-arginina come substrato. Qui, la L-arginina decarbossilasi e l’agmatina ureoidrolasi sono co-espresse per convertire L-arginina in putrescina. Il processo raggiunge una resa massima del 98% a un pH ottimale di 9.5 e a una temperatura di 45 °C.

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Incisione sulla roccia rivela come i segni zodiacali fossero interpretati dagli egizi

Scoperto in Egitto un petroglifo unico che potrebbe rappresentare il Capricorno, un simbolo zodiacale che evidenzia l’incontro tra tradizioni locali e influenze greco-romane.

©The Journal of Egyptian Archaeology (2024)

Una recente scoperta archeologica nella regione di el-Hosh, in Egitto, ha rivelato un petroglifo che potrebbe rappresentare il segno zodiacale del Capricorno. La figura, un ibrido tra una capra e un pesce, è stata scoperta da un team di ricercatori guidato dalla dottoressa Linda Evans della Macquarie University, in uno studio pubblicato sul Journal of Egyptian Archaeology. Questo ritrovamento è di particolare rilevanza, poiché segnala la presenza di simboli zodiacali nell’arte rupestre egiziana, qualcosa mai osservato precedentemente.

Il petroglifo è identificato grazie al lavoro del dottor Frederick Hardtke, il quale ha notato l’immagine durante una spedizione archeologica:

Accanto a questa figura è stata trovata un’altra rappresentazione rara, quella di un camaleonte. Insieme, formano un pannello di notevole interesse.

La dottoressa Evans ha evidenziato una possibile connessione con l’iconografia astrologica, approfondendo l’:

Inizialmente avevamo considerato la figura come un animale mitologico, ma ulteriori indagini hanno suggerito che si trattasse del Capricorno, un simbolo dello zodiaco.

Ciò che rende questa rappresentazione particolarmente significativa è la sua divergenza dalla tradizione artistica egiziana. Gli animali ibridi, come l’animale di Seth, venivano creati per rappresentare poteri specifici. La somiglianza con il “pesce-capra” zodiacale è così marcata da far ipotizzare che non si tratti di un’invenzione egiziana, ma di un elemento introdotto da influenze esterne.

Dalla Mesopotamia all’Egitto: il lungo viaggio del Capricorno

Le origini del Capricorno si trovano in Mesopotamia, dove il dio Enki (Ea per gli Akkadi) era rappresentato con elementi acquatici legati alle costellazioni. Questa figura mitologica si è evoluta in una versione più stilizzata del “goat-fish”, come attestano i sigilli cilindrici risalenti al periodo 2112-2004 a.C.

Successivamente, lo zodiaco si diffuse in Grecia e , giungendo infine in Egitto intorno al 300 a.C., durante il periodo tolemaico. I simboli zodiacali iniziarono a comparire nei templi, come quelli di Armant, e in seguito su monete e ornamenti funerari nel periodo greco-romano.

Secondo gli esperti, il petroglifo dovrebbe risalire al periodo compreso tra il I secolo a.C. e il II secolo d.C., quando l’influenza greco-romana era particolarmente forte in Egitto. La rappresentazione della coda lineare del Capricorno, visibile nell’, precede l’introduzione della versione con coda ad anello tipica del II secolo d.C.

In merito alla presenza di un simbolo zodiacale su una nel deserto, gli specialisti avanzano varie ipotesi. Potrebbe trattarsi di un indicatore astronomico utilizzato come strumento di navigazione notturna, oppure di un’incisione realizzata da qualcuno attratto dal simbolismo astrologico, ispirato da una moneta o da un’altra rappresentazione.

Un elemento interessante è che l’arte rupestre egiziana, dopo l’introduzione della scrittura, ha vissuto una diminuzione in qualità e frequenza. È possibile che il petroglifo sia stato realizzato in modo impreciso, magari riprodotto a memoria.

La prossimità del petroglifo del Capricorno rispetto a quello del camaleonte suggerisce che entrambe le rappresentazioni potrebbero essere state create in un periodo simile, forse dalla stessa mano. Questo aspetto avvalora l’idea che, durante l’epoca greco-romana, l’Egitto fosse un crocevia di culture e influenze artistiche, dove anche le popolazioni locali cominciavano ad adottare simboli esterni come parte della loro identità culturale.

Fonte: Journal of Egyptian Archaeology

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L’enigma dell’Uomo di Tollund, mummificato per 2.400 anni, indaga su crimine, sacrificio o vendetta.

Ritrovato nel 1950, l’Uomo di è un corpo dell’Età del Ferro scoperto in una palude danese: la sua straordinaria conservazione racconta una di sacrifici, rituali e misteri ancora irrisolti della Jutland preistorica.

@Wikimedia Commons

Nel 1950, una famiglia danese impegnata a tagliare la torba per il combustibile scoprì un corpo umano perfettamente conservato emergente dalla terra di una palude nella regione di Bjældskovdal, in Danimarca. Inizialmente si pensava si trattasse di una vittima di omicidio, ma gli scienziati stabilirono che il corpo risaliva all’Età del Ferro, circa 2.400 anni fa.

Questo uomo, noto come Uomo di Tollund, era morto per impiccagione, ma le circostanze della sua morte rimangono misteriose. essere stata una vittima di sacrificio umano oppure una punizione; il suo volto, leggermente sorridente, ha attirato l’attenzione di numerosi studiosi.

Identità dell’Uomo di Tollund

Il corpo dell’Uomo di Tollund, con pelle scura e bronzata, giaceva rannicchiato in posizione fetale su un letto di torba. Attraverso analisi al carbonio e morfologiche, è determinato che l’uomo, alto circa 1,60 m, aveva tra i 30 e i 40 anni al momento della morte, avvenuta tra il 405 e il 380 a.C. L’eccezionale conservazione del corpo è dovuta al mix unico di acidità e assenza di ossigeno della palude, che ha mantenuto intatti tessuti come pelle, unghie e persino il cervello.

In vita, l’Uomo di Tollund abitava la Jutland durante i primi anni dell’Età del Ferro, un periodo in cui la comunità locale coltivava cereali, allevava animali e praticava rituali religiosi, spesso legati alle paludi. Questi ambienti acquitrinosi erano considerati porte verso il mondo soprannaturale e spesso ospitavano offerte agli dei, comprese vittime umane.

Uomo di Tollund

@Wikimedia Commons

Misteri e teorie sulla sua morte

L’Uomo di Tollund era stato seppellito senza vestiti, indossando solo un cappuccio e una cintura. Recenti indagini hanno suggerito che durante la sua vita passava scalzo e periodi con calzature.

Un’analisi approfondita dei resti intestinali ha rivelato che l’ultimo pasto consisteva in porridge di orzo, semi selvatici, lino e pesce. Non sono state trovate tracce di sostanze psicotrope solitamente collegate ai sacrifici umani, alimentando ulteriormente il dibattito sulle ragioni della sua morte: si tratta di un sacrificio per placare gli déi o di una punizione per un crimine?

La posizione precisa del corpo, con occhi e bocca chiusi, suggerisce una sepoltura rituale. Tuttavia, alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che l’Uomo di Tollund possa essere stato un criminale o vittima di vendetta. Un’altra teoria ipotizza che possa essere stato un sacrificio umano in risposta a una crisi ambientale o sociale. La storia dell’Uomo di Tollund ha ispirato artisti e studiosi, continuando a porre interrogativi sulla sua vita e sulla sua morte.

Fonte: Journal of Archaeological Science

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La lunga notte polare è calata a Utqiaġvik: la città dell’Alaska non vedrà sorgere il sole per 64 giorni.

Gli abitanti di Utqiaġvik, che si trova nell’Alaska settentrionale, hanno detto addio al sole per quest’anno. Qui sorgerà nuovamente soltanto a fine gennaio 2025: è la notte polare.

@Meteorologist Cassie Nall

Immaginate di vivere al buio, senza la luce solare, per oltre due mesi, in un luogo gelido, con temperature fino a oltre -20°C. È proprio quanto accadrà ai residenti di Utqiaġvik, città dell’Alaska, che non vedranno più il sole fino al 23 gennaio 2025. Ieri, i 4.500 abitanti, per lo più indigeni Iñupiat, lo hanno visto sorgere per l’ultima volta, almeno per quest’anno. Nella città, situata a Nord del circolo polare artico ed ospitante l’Osservatorio ambientale, è iniziata una lunga e buia notte polare.

Come si vive al buio?

Come spiegato dal National Weather Service (NWS), il crepuscolo civile inizia quando il centro del sole si trova entro 6 gradi sotto l’orizzonte. “In queste condizioni, assenza di nebbia o altre restrizioni, si possono vedere le stelle e i pianeti più luminosi, si possono distinguere l’orizzonte e gli oggetti terrestri e, in molti casi, non è necessaria l’illuminazione artificiale”, chiarisce il NWS.

Pertanto, la popolazione non resterà completamente nell’oscurità per i prossimi 64 . Il crepuscolo civile fornirà luce sufficiente per vedere durante quelle che generalmente sarebbero le ore diurne.

città alaska notte polare

@City of Utqiaġvik

La comunità, composta principalmente da nativi Iñupiat, ha sviluppato nel corso dei secoli diverse strategie per adattarsi a queste condizioni estreme. Durante questo periodo si svolgono:

  • eventi comunitari regolari per mantenere alto il morale
  • festività tradizionali che celebrano questo momento particolare dell’anno
  • una serie di attività all’aperto organizzate per bambini e adulti

La causa della lunga notte polare

Il fenomeno della notte polare è connesso all’inclinazione dell’asse terrestre. A latitudini superiori o pari a quelle del Circolo Polare Artico, il Sole può rimanere sotto l’orizzonte anche per periodi prolungati, a causa della vicinanza al polo geografico. Questa situazione dà vita, dunque, alle notti polari.

“Poiché l’emisfero settentrionale si inclina lontano dal Sole in e in inverno, le aree a nord del Circolo Polare Artico, entro 23,5 gradi dal Polo Nord, sperimentano più di due mesi in cui il sole non spunta mai sopra l’orizzonte”, spiega The Weather Channel. La prossima volta che il Sole sorgerà a Utqiaġvik sarà il 23 gennaio 2025. Tuttavia, la prima alba non durerà a lungo; la luce del giorno aumenterà progressivamente, raggiungendo le quattro ore entro la fine del mese. Quando il sole finalmente riapparirà a gennaio, la comunità celebrerà tradizionalmente con il festival del “Ritorno del Sole”, un evento che segna la fine della notte polare e l’inizio di un graduale ritorno alla normalità.

Fonte: US National Weather Service Fairbanks Alaska

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Siglata a Roma la nuova partnership tecnologica tra USB SPA e WWF

Quando la natura incontra la tecnologia, nascono collaborazioni potenti. Italia e uniscono le forze per portare innovazione digitale alla tutela dell’ambiente: strumenti smart per gestire meglio le Oasi, formare i volontari e proteggere il pianeta in modo ancora più efficace.

Il 1° ottobre 2024, WWF Italia ha firmato un importante accordo di collaborazione con USB SPA presso la sede romana dell’organizzazione, in via Po. La tecnologica, della durata di due anni, mira a rafforzare il supporto digitale per WWF Italia, con lo scopo di ottimizzare le attività di tutela e conservazione della natura.

L’accordo si distingue per l’impegno a fornire strumenti digitali avanzati, con cui facilitare la gestione delle risorse e supportare l’attività dei volontari nelle aree protette.

Obiettivi principali dell’accordo

La partnership tra WWF Italia e USB SPA mira a implementare soluzioni digitali avanzate per migliorare la gestione delle attività dell’organizzazione ambientale. WWF Italia punta a incrementare l’efficienza delle proprie operazioni attraverso strumenti tecnologici progettati appositamente per supportare le esigenze della conservazione naturale.

Grazie al supporto tecnologico previsto dall’accordo, WWF Italia potrà semplificare i processi di gestione delle Oasi e rafforzare la comunicazione con i propri volontari, fondamentali per le attività sul territorio. Questa collaborazione rappresenta un passo significativo per il WWF, che continua a perseguire con determinazione il proprio obiettivo di difesa dell’ambiente con un approccio sempre più innovativo e sostenibile.

Software per la gestione delle Oasi WWF

Uno dei principali obiettivi della partnership è la creazione di un software innovativo dedicato alla gestione delle Oasi del WWF, sviluppato per ottimizzare le attività quotidiane nelle riserve naturali. Questo strumento offrirà al team di WWF Italia la possibilità di monitorare e gestire le risorse naturali in modo più efficace, raccogliendo dati essenziali su flora, fauna e condizioni ambientali, fondamentali per la tutela della biodiversità.

Attraverso una piattaforma intuitiva, il WWF potrà facilitare la comunicazione tra i responsabili delle Oasi, migliorando il coordinamento in tempo reale e la condivisione di informazioni critiche per le attività sul territorio. Grazie a questo approccio tecnologico, WWF Italia rafforza ulteriormente la sua capacità di gestione e protezione delle sue preziose riserve naturali, consolidando il proprio ruolo centrale nella conservazione ambientale.

Strumento per la formazione e informazione dei volontari WWF

La partnership prevede lo sviluppo di una piattaforma digitale per la formazione e l’informazione dei volontari, progettata per rendere l’esperienza educativa più accessibile ed efficace. Questo strumento consentirà di approfondire conoscenze fondamentali sulla tutela della biodiversità e sulla protezione delle risorse naturali, attraverso contenuti sempre aggiornati e facili da utilizzare.

I volontari potranno così migliorare le loro competenze e il loro contributo nelle attività sul campo, rafforzando il nelle aree protette e creando una comunità sempre più preparata e consapevole nella salvaguardia dell’ambiente, con particolare attenzione alla protezione degli animali selvatici e degli habitat naturali.

Evento “For Nature, for US”: terza edizione

La partnership prevede anche l’organizzazione della terza edizione dell’evento “For Nature, for US”, una manifestazione che coinvolgerà il pubblico tra Napoli e Milano. Questo evento rappresenta un’occasione per sensibilizzare il pubblico sui temi della conservazione della natura e sull’importanza di proteggere le Oasi, le riserve naturali gestite dal WWF, veri e propri rifugi per la biodiversità.

Attraverso iniziative educative e attività interattive, i partecipanti potranno approfondire l’impegno del WWF nella gestione e protezione di queste aree. L’evento mira a offrire un’esperienza arricchente e coinvolgente, creando un dialogo diretto con il pubblico interessato a contribuire alla tutela del nostro patrimonio naturale.

La collaborazione con USB SPA rappresenta per WWF Italia un passo strategico verso l’innovazione e il miglioramento delle proprie attività di tutela ambientale. Grazie ai nuovi strumenti digitali, WWF Italia potrà ottimizzare la gestione delle proprie risorse, rafforzando l’impegno verso la protezione delle Oasi e migliorando la comunicazione interna con i volontari. Questo approccio tecnologico offre all’organizzazione un supporto solido per affrontare le sfide future, facilitando una crescita sostenibile e permettendo a WWF Italia di continuare a svolgere un ruolo centrale nella difesa dell’ambiente.

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