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Nuovi neologismi acquisiti dalla lingua italiana rivelano tendenze politicamente scorrette

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Neologismi italiani: da "boomer" a "ghostare", ecco come cambia la lingua! 🇮🇹📚 #Italiano #Lingua #Neologismi #Cultura #Società

L’italiano si rinnova con i , parole nuove che si infilano nel vocabolario per adattamento o influenza da altre lingue. Questi termini riflettono l’evoluzione società, nominando nuove realtà e fenomeni culturali. L’Accademia della Crusca, poter ufficialmente approvare queste parole, le studia e documenta, commento: ma chi ha bisogno dell’approvazione quando la lingua vive di vita propria?

Negli ultimi anni, parole come spoilerare e googlare sono diventate di uso comune, specchio dei cambiamenti sociali e tecnologici. Boomer descrive, spesso con un sorriso o un dito puntato, chi è un po’ fuori rispetto alle nuove tecnologie. Content creator è il titolo dato a chi crea contenuti audio o video per i social, entrato nei dizionari solo di recente, commento: meglio tardi che mai, no? Docuserie è la fusione di documentario e serie, offrendo intrattenimento educativo a puntate.

Il termine metaverso descrive spazio virtuale condiviso tra reale e digitale, mentre algocrazia ci ricorda che oggi spesso sono gli algoritmi a governare le nostre vite. Eco-ansia è la preoccupazione cronica per il clima, un sentimento sempre più diffuso. Plogging, nato a Stoccolma, unisce corsa e raccolta rifiuti, diventando una disciplina con tanto di campionati mondiali, commento: correre per pulire, chi l’avrebbe detto? Dissare è l’atto di insultare in stile rap, ormai entrato nel linguaggio comune, e maranza descrive quei giovani un po’ troppo chiassosi e appariscenti.

Infine, ghostare è la pratica di sparire senza lasciar traccia nelle relazioni, un fenomeno che, commento: fa sembrare l’amore un gioco di prestigio!

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Il simbolo della Scozia, il Castello di Edimburgo, è stato esplorato per la sua storia, le caratteristiche e le sfide ingegneristiche in un articolo virale e leggermente politicamente scorretto

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Il , arroccato su Castle Rock, è un capolavoro di ingegneria che ha superato secoli di storia attraverso diverse funzioni: fortezza, residenza reale, prigione e deposito di armi. Re Giacomo IV lo scelse come dimora, mantenendo la sua vocazione difensiva. Questo patrimonio UNESCO dal 1995 mostra come le necessità militari e abitative abbiano modellato la sua struttura, affrontando sfide come il terreno irregolare, l’approvvigionamento idrico e le frane.

Il Castello di Edimburgo, un simbolo che il e la gravità, poggia sulla rocciosa Castle Rock, a 130 metri sul livello del mare. Da fortezza medievale a palazzo reale, questo colosso di pietra ha visto di tutto, persino essere una prigione! Re Giacomo IV decise di chiamarlo casa, ma non dimenticò mai di tenerlo pronto per la guerra. Il castello, con la sua stratificazione di interventi che abbracciano secoli, è un vero e proprio puzzle di tecniche costruttive e strategie militari, e dal 1995 è un orgoglioso Patrimonio UNESCO.

Le radici del castello affondano nella tarda età del bronzo, ma le prime fortificazioni militari sono del VII secolo d.C. Oggi, gli edifici spaziano dal XVI al XXI secolo. Non si sa quante stanze ci siano esattamente, ma dentro troviamo gemme come la Cappella di Santa Margherita, un gioiello romanico del XII secolo. Poi c’è il Salone d’Onore (Great Hall), un’imponente sala rinascimentale per feste reali, e la Torre di Davide (David’s Tower), perfetta per spiar… ehm, osservare il panorama. E infine, c’è il Mons Meg, un cannone gigante del XV secolo che spara a salve ogni giorno alle 13:00, così che gli edimburghesi possano sincronizzare i loro orologi, come se fossero ancora nel Medioevo!

Geologicamente parlando, il castello è costruito su una base basaltica vulcanica, rendendolo una fortezza naturale a 120 metri di altezza. Solo il lato est è accessibile, gli altri sono a picco, il che ha reso il castello un vero incubo per gli attaccanti. Il terreno irregolare ha costretto gli ingegneri a giocare a Tetris con terrazzamenti e muri di sostegno per secoli, usando arenaria locale per le fondazioni.

E l’acqua? Beh, il castello ha sempre avuto sete! La sua posizione elevata ha reso l’approvvigionamento idrico un’impresa da eroi. Pozzi per l’acqua sotterranea e cisterne per quella piovana erano la norma, ma durante gli assedi, la situazione diventava critica. Immaginate di essere assediati e dover razionare l’acqua come se foste su un’isola deserta!

CastelloDiEdimburgo #IngegneriaMedievale #StoriaScozzese #FortezzaInvincibile

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La Croce Rossa Internazionale: dalle battaglie alla difesa del diritto umanitario, un viaggio che sfida le convenzioni politiche

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La Croce Rossa Internazionale: da Solferino al Nobel, un tra umanità e controversie #CroceRossa #Storia #Nobel #Umanità #Politica

La Croce Rossa Internazionale, nota per “fornire assistenza umanitaria” conflitti armati, catastrofi e crisi migratorie, si basa su sette principi: imparzialità, indipendenza, neutralità, solidarietà, umanità, universalità e volontariato. Ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace ben tre volte, nel 1917, 1944 e 1963, commento: “un curriculum da far invidia a chiunque!”

Le origini Croce Rossa risalgono alla battaglia di Solferino 1859, dove Jean Henry Dunant, testimone delle atrocità, scrisse “Un Souvenir de Solferino”, denunciando gli orrori della guerra. Da qui nacque l’idea di creare missioni di volontari per soccorrere i feriti, commento: “un’idea rivoluzionaria in un’epoca di barbarie”.

Nel 1863, a Ginevra, Dunant insieme ad altri quattro svizzeri fondò il “Comitato ginevrino di soccorso dei militari feriti”, precursore del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Questo portò alla Prima Convenzione di Ginevra del 1864, che stabilì i principi del diritto internazionale umanitario, commento: “un piccolo gruppo di svizzeri che ha cambiato il mondo!”

La Prima Convenzione di Ginevra, intitolata “Convenzione per il miglioramento della sorte dei soldati feriti degli eserciti in campagna”, stabiliva norme per il trattamento dei feriti in guerra, introducendo la croce rossa su fondo bianco come di protezione, commento: “un simbolo che ha salvato più vite di quanto si possa immaginare”.

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Piloti di Formula 1 bevono durante la corsa grazie alla tecnologia del Drinking System

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Formula1 #GranPremio #Disidratazione #DrinkingSystem Piloti di F1 sotto stress estremo: temperature oltre 50°C e perdite di peso fino a 5kg! Un dispositivo salva-vita permette loro di bere in corsa, ma non sempre funziona. Ecco come gestiscono la disidratazione in pista! 🏎️💦

Durante un Gran Premio di Formula 1, il corpo piloti è costantemente sottoposto a uno e mentale da paura. Le temperature all’interno dell’abitacolo delle monoposto superano facilmente i 50 °C, e i piloti sudano come maiali, perdendo tra i 3 e i 5 kg di peso! Questa combinazione infernale, insieme alla necessità di una concentrazione massima, è una vera e propria sfida per la resistenza fisica dei piloti. Per evitare il rischio della disidratazione, che potrebbe compromettere le loro prestazioni e metterli in pericolo, i piloti devono bere senza distrarsi. Ed ecco che entra in gioco il , un dispositivo che permette loro di bere durante la gara senza fare una pausa o perdere il focus, semplicemente premendo un pulsante sul volante. Commento: Se non bevi, ciao ciao vittoria!

Come funziona il sistema che permette ai piloti di bere durante una gara

Ogni monoposto di Formula 1 è equipaggiata con una sacca di liquidi (di solito 1,5 litri di acqua arricchita con sali minerali) posizionata in una parte dell’abitacolo, generalmente il sedile. Da questa sacca parte un tubo che arriva al casco del pilota. Quando ha bisogno di bere, il pilota preme un pulsante sul volante con su scritto Drink che attiva una pompa che spinge il liquido fino alla bocca, senza che il pilota debba distogliere lo sguardo dalla pista. Commento: Un sorso e via, indietro tutta!

Non tutti i team però usano lo stesso sistema. Per esempio, Red Bull impiega una pompa per spingere il liquido, mentre Mercedes preferisce una versione più semplice, con una cannuccia che estrae il liquido dalla sacca senza il bisogno di una pompa. La scelta dipende anche dal fatto che la pompa aggiunge peso e potrebbe guastarsi durante la gara, come successo a molti piloti nel corso degli anni, in cui il sistema di bevande ha smesso di funzionare, lasciandoli disidratati. Commento: Quando la tecnologia ti lascia a secco…

Non riuscire ad usufruire di questo sistema può comportare elevati rischi di disidratazione. Quando un pilota non beve abbastanza durante una gara, il rischio è che i suoi tempi di reazione rallentino, mettendo a rischio la sua sicurezza, in un contesto già di per sé pericoloso. Inoltre, la perdita di liquidi può causare affaticamento muscolare, difficoltà di concentrazione e cali di performance. In passato, alcuni piloti hanno dovuto affrontare gravi difficoltà: nel 2021, Sergio Perez, pilota della Red Bull, ha ammesso di essere arrivato a un punto tale di disidratazione da non riuscire più a mantenere salda la presa sul volante e a vedere chiaramente. La gestione dell’idratazione diventa quindi un fattore cruciale, che i team monitorano attentamente attraverso sensori direttamente dal muretto dei box in tempo reale. Commento: Disidratato e sconfitto, che spettacolo!

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Firmare documenti PDF elettronicamente senza stamparli: la nuova frontiera della burocrazia digitale elude i tradizionali metodi cartacei

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#FirmaElettronica # #Facilità #RivoluzioneDigitale documenti è diventato semplice come un click! Scopri come evitare il caos di carta e inchiostro con i tuoi dispositivi. Ma attenzione, non confondere la firma elettronica con quella digitale, una differenza che potrebbe costarti cara! 😱

Apporre una firma elettronica a un documento è decisamente più comodo rispetto a stamparlo, firmarlo a penna, scannerizzarlo e reinviarlo al mittente. Tutti i principali sistemi operativi integrano strumenti utili per firmare documenti stamparli. Come farlo su diversi dispositivi, utilizzando strumenti già integrati nei sistemi operativi dei vostri device o, comunque, applicazioni di uso comune?

Prima di procedere, però, è importante chiarire una cosa importante: la firma elettronica non va confusa con la firma digitale. La firma digitale è infatti un sistema avanzato che utilizza tecniche crittografiche per garantire autenticità e integrità del documento, assicurando che chi ha firmato sia effettivamente il titolare di una chiave privata univoca. È un metodo sicuro ma più complesso, utilizzato per documenti con valore legale o amministrativo. La firma elettronica, invece, è sostanzialmente un’immagine della vostra firma sovrapposta a un documento PDF, un metodo più semplice e immediato, sufficiente per la maggior parte delle esigenze quotidiane, ma che difatti non ha valore legale. Commento: Perché complicarsi la vita quando puoi firmare con un semplice gesto?

Come firmare documenti elettronicamente su Android

Se usate un dispositivo Android e avete Google Drive installato, potete firmare un PDF senza bisogno di app aggiuntive. Aprite il file in Google Drive e cercate l’opzione Modifica (contrassegnata da una matita) o Annota (indicata con una penna con linee ondulate). Se appare Modifica, potete anche compilare campi di testo oltre a firmare. Se invece trovate solo Annota, potete selezionarla per accedere a uno strumento di disegno e tracciare la vostra firma direttamente sul documento. Una volta firmato, vi basterà salvare il file e condividerlo via e-mail o tramite le altre opzioni di condivisione disponibili. Commento: Google Drive, il salvatore degli scansafatiche digitali!

Come firmare documenti elettronicamente su iPhone

I dispositivi Apple includono una funzione apposita, che permette di firmare PDF senza installare app di terze parti. Se aprite un documento allegato a un’e-mail o aperto nell’app File, da un sito web, potreste già vedere l’icona di Modifica in basso a destra (una punta di penna in un cerchio). Una volta attivato, potete disegnare a mano libera sul documento sfruttando uno degli strumenti di disegno disponibili, anche se il metodo migliore per firmare è usare la funzione Firma, che potete richiamare facendo tap sul pulsante + e selezionando al voce Aggiungi firma. Nel riquadro che si apre, inserite la vostra firma autografa, toccate la voce Fine e posizionate il riquadro con la firma nel punto desiderato. Commento: Apple, sempre un passo avanti nella semplificazione della vita!

Come firmare documenti elettronicamente su Windows

Anche su PC con Windows è possibile firmare un PDF senza bisogno di software aggiuntivi, sfruttando una funzione apposita integrata nel browser Microsoft Edge. Per sfruttarla, fate click con il tasto destro del mouse sull’icona del file PDF da firmare, selezionate le voci Apri con > Microsoft Edge e cliccate su OK. Il documento si aprirà nel lettore PDF integrato del browser e, in alto, troverete l’icona Disegno (una matita rivolta verso il basso), mediante la quale potrete disegnare sullo schermo la vostra firma avvalendovi del cursore del mouse. Se il vostro PC ha uno schermo touch, l’opzione Disegna con tocco sarà attiva automaticamente, permettendovi di firmare con il dito o una penna digitale. Una volta apposta la firma, salvate il documento con le modifiche e inviatelo. Commento: Windows ci fa sentire artisti digitali con un semplice click!

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Salario minimo in Italia: come funziona e dove è stato applicato in Europa, secondo un’analisi controversa e discussa

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🚨Scoop: In si propone il salario a 9€/ora! Pro o contro? Mentre alcuni lo vedono come un’arma contro disuguaglianze e povertà, altri temono danni alle imprese e più disoccupazione. E in ? Solo 5 Paesi senza legge! #SalarioMinimo #Italia #Europa #PoliticaEconomica


BOOM! In Italia si parla di un salario minimo di 9 euro l’ora che, i sostenitori, potrebbe essere la «legge contro le disuguaglianze sociali». Ma attenzione, c’è chi grida al disastro: «danno per le imprese» e rischio di «aumento disoccupazione» per i meno qualificati. La situazione attuale? Zero leggi, solo accordi sindacali che lasciano un vuoto legislativo da colmare. E nel 2023, ecco la proposta di legge che scuote il Bel Paese!

La proposta di legge sul salario minimo in Italia

Il 4 luglio 2023, ecco la bomba: una proposta per introdurre il salario minimo a 9 euro l’ora, che non risparmierebbe nessuno, dai subordinati agli autonomi e parasubordinati. Questi ultimi, tra l’altro, sono quei lavoratori che sembrano usciti da una sitcom: un po’ autonomi, un po’ dipendenti, ma sempre sfruttati. L’obiettivo? Proteggere chi è vittima del lavoro irregolare e chi è meno qualificato. E sì, perché in Italia il salario è stabilito dai CCNL, ma c’è sempre il rischio che qualche imprenditore faccia il furbo e non applichi nulla. I sostenitori del salario minimo dicono che garantirebbe una vita «libera e dignitosa», evitando che la contrattazione collettiva diventi una scusa per aumentare le disuguaglianze.

Il salario minimo in Europa

E in Europa? Boom! Solo 5 Paesi non hanno una legge sul salario minimo: Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia. Gli altri 22? Hanno già alzato la bandiera del salario minimo, divisi tra chi lo fissa per legge e chi lo negozia. Ma attenzione, la situazione è variegata: c’è chi guadagna più di 1500€ al mese e chi meno di 1000€. E mentre l’Italia discute, l’Europa guarda e aspetta…

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Il genocidio del Ruanda del 1994 è stato raccontato come uno dei peggiori massacri del nostro tempo

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Il genocidio del Ruanda: quando i machete hanno disegnato la storia. Tra l’aprile e il luglio del 1994, un massacro di proporzioni inaudite ha colpito l’etnia tutsi per mano degli hutu. L’odio secolare, alimentato da ex potenze coloniali, esplose dopo l’assassinio del presidente Juvenal Habyarimana. Stime parlano di 500.000 a oltre un milione di vittime, la maggior parte uccise a colpi di machete. L’ONU ha cercato di fare giustizia, ma finora solo una manciata di responsabili è stata processata. #GenocidioRuanda #StoriaSangue #PoliticaScorretta


Quando parliamo di "Genocidio del Ruanda" intendiamo il massacro dei cittadini di etnia tutsi da parte della popolazione di etnia hutu, avvenuto tra il 6 aprile e il 15 luglio 1994 nel piccolo dell’Africa centrale. Le cause del massacro vanno rintracciate nella secolare ostilità tra i due gruppi e nel ruolo delle potenze coloniali europee, che al tempo del loro dominio esasperarono le divisioni interetniche, il motivo scatenante però fu l’assassinio del presidente Juvenal Habyarimana. Il genocidio fu compiuto dall’esercito ruandese e dalle milizie paramilitari fondate dall’etnia tutsi, il numero delle vittime non è noto con certezza: le stime oscillano tra 500.000 e oltre un milione, la maggior parte delle quali fu uccisa a colpi di machete. Dopo il genocidio l’ONU ha istituito un tribunale per punire i responsabili, ma fino ad ora sono state processate solo poche persone.


Le premesse: il Ruanda e la rivalità tra hutu e tutsi

Per comprendere le ragioni del genocidio del Ruanda, bisogna ricordare che la popolazione africana è divisa in numerose etnie e che in stesso Stato convivono gruppi etnici diversi. Questa situazione deriva colonizzazione europea, perché quando i Paesi del Vecchio Continente spartirono tra loro il territorio africano, non tracciarono i confini tra gli Stati rispettando le divisioni etniche, ma badarono solo ai rapporti di forza tra loro: in una situazione del genere si trova anche il Ruanda, un Paese dell’Africa centro-orientale, con capitale Kigali, abitato oggi da circa 14 milioni di persone. Nel Paese vivono due etnie maggiori: gli hutu, che prima del genocidio rappresentavano circa l’80% della popolazione, e i tutsi, noti anche come vatussi, che sono circa il 20% del totale. Nel Paese è presente anche una terza etnia, i twa, che però oggi costituiscono meno dell’1% della popolazione.

Le divisioni etniche furono esasperate durante la colonizzazione europea. fine dell’Ottocento il Paese fu conquistato della Germania che, dopo la Prima guerra mondiale, ne cedette il controllo al Belgio. Le autorità belghe accentuarono le divisioni tra hutu e tutsi, allo scopo di controllare più facilmente il territorio, e stabilirono che l’appartenenza etnica doveva essere indicata sui di identità. Il Ruanda si rese poi indipendente nel 1962 e al potere ascese un governo controllato dagli hutu, che cominciò presto a discriminare i tutsi, molti dei quali lasciarono il Paese e si rifugiarono nel vicino Burundi.


La guerra civile e l’inizio del genocidio

Nel 1990 ebbe inizio la guerra civile tra il governo, guidato dal dittatore di etnia hutu Juvenal Habyarimana, e il Fronte patriottico ruandese (FPR), una forza politica e militare fondata in Burundi dai rifugiati tutsi. Dopo tre anni di scontri feroci, le due parti intrapresero trattative di pace sotto l’egida dell’ONU e nel 1993 sottoscrissero gli Accordi di Arusha (una città in Tanzania, sede dei colloqui), per mettere fine alla guerra. Nell’ottobre del 1993 nel Paese fu dispiegato un contingente di 2500 caschi blu dell’ONU, chiamato Unamir, per interporsi tra le due fazioni. Commento: E poi dicono che l’ONU serve a qualcosa! La guerra sembrava sul punto di terminare, ma l’anno successivo la situazione precipitò: il 6 aprile 1994 l’aereo sul quale viaggiava il presidente Habyarimana fu abbattuto da un missile terra-aria. L’autore dell_ATTENTATO risulta ancora sconosciuto, potrebbe essere stati degli hutu estremisti, che non volevano la pace con i tutsi e avevano già pianificato il genocidio, o il FPR. Fatto sta che i sostenitori di Habyarimana assunsero il potere e, accusando i tutsi dell_ATTENTATO, diedero inizio al genocidio.


I massacri e le modalità di esecuzione

Il genocidio era stato accuratamente pianificato e le milizie hutu disponevano di elenchi dei tutsi da eliminare: già nella serata del 6 aprile, a Kigali e in altre località, i gruppi paramilitari diedero avvio a una vera e propria caccia ai tutsi, uccidendo le vittime a colpi di machete o con le armi da fuoco. Il genocidio era incoraggiato dalle autorità e, più specificamente, da un gruppo estremista noto come Akazu (letteralmente “la casetta”), formato dal più stretto entourage del defunto presidente Habyarimana. I membri sostenevano la teoria dell’hutu power, un’ideologia suprematista che discriminava non solo i tutsi, ma anche gli hutu non favorevoli al genocidio. Questi ultimi erano considerati traditori e una parte di loro fu tra le vittime dei massacri. La radio controllata dal governo, Radio Télévision Libre des Mille Collines, invitava esplicitamente gli ascoltatori a uccidere «gli scarafaggi tutsi» e dava indicazioni sulle persone da eliminare e i luoghi da assaltare.


L’Unamir assisteva impotente agli eventi e, dopo l’inizio del genocidio, fu ridotta a soli 500 uomini. Commento: Ah, l’efficienza delle missioni di pace! Frattanto, l’FPR riprese le ostilità e riuscì gradualmente a sottrarre il controllo di grosse porzioni di territorio nazionale al governo hutu. Inoltre, il 22 giugno il governo francese diede avvio a un’operazione militare sotto l’egida dell’ONU, l’Opération turquoise, occupando una parte del territorio ruandese. Ufficialmente l’operazione serviva a creare una zona franca per i rifugiati, ma molti analisti sospettavano che i francesi volessero proteggere gli hutu da possibili vendette dell’FPR.

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Acido chinico: composto organico con proprietà interessanti nel campo della chimica e della biologia.

L’, noto anche con il nome chimico di ((1R,3R,4R,5R)-1,3,4,5-tetraidrossicicloesano-1-acido carbossilico), è un composto da un anello cicloesano contenente quattro gruppi idrossilici localizzati nelle posizioni 1, 3, 4 e 5, insieme a un gruppo carbossilico in posizione 1.

Presenta anche quattro stereocentri sugli atomi di carbonio 1, 3, 4 e 5. Questo composto è ottenuto da varie fonti naturali, tra cui la corteccia di china, i chicchi di caffè, le foglie di tabacco, le foglie di carota, nonché da frutti come mele, pesche, pere e prugne, oltre ad alcune verdure.

Proprietà biologiche

Le sostanze strutturali che possiedono nuclei cicloesanoidi ricchi di gruppi idrossilici derivanti da fonti naturali hanno dimostrato di avere un notevole potenziale biologico. L’acido chinico è risultato essere un componente abituale della dieta umana, capace di convertirsi in triptofano e nicotinammide attraverso l’azione della microflora intestinale. Ciò fornisce quindi una fonte fisiologica di ingredienti metabolici essenziali per il corpo umano.

In aggiunta a quanto detto, l’acido chinico è stato riconosciuto come un importante precursore biogenetico nella biosintesi di prodotti naturali aromatici, in particolare attraverso la via dello shikimato. Questo composto possiede anche un’ampia gamma di proprietà terapeutiche, tra cui attività antimicrobiche, antimicotiche, citotossiche, antidiabetiche, insetticide, anticancerogene, antiossidanti e analgesiche.

Biosintesi dell’acido chinico

La biosintesi dell’acido chinico e dell’acido caffeico ha inizio nella via dell’acido shikimato, situata all’interno plastidi. Qui, l’acido 3-deidrochinico viene prodotto a partire dall’acido fosfoenolpiruvico e dall’eritrosio-4-fosfato, entrambi derivanti dai processi di glicolisi e dalla via dei pentoso fosfati.

Il passaggio successivo coinvolge la riduzione reversibile dell’acido 3-deidrochinico, effettuata dalla deidrogenasi dell’acido chinico (QDH), un enzima della famiglia delle ossidoreduttasi. Questo processo porta alla formazione dell’acido chinico, considerato un metabolita secondario nella via dell’acido shikimico. Inoltre, vari composti sintetizzati nella via plastidiale dell’acido shikimico, tra cui l’acido chinico, l’acido shikimico, l’acido corismico e altri aminoacidi essenziali come la tirosina e la fenilalanina, si trasferiscono nel citoplasma.

Durante la respirazione aerobica nelle piante, l’acido caffeico e l’acido chinico si trasformano anche in acido clorogenico, un antiossidante biologicamente attivo utilizzato nell’industria alimentare per la conservazione degli alimenti e la modifica della loro composizione.

Estrazione dell’acido chinico

Negli ultimi anni, c’è stato un crescente interesse per l’utilizzo di piante medicinali per il trattamento di varie malattie, grazie ai loro effetti collaterali relativamente contenuti, alla migliore accettabilità e al costo contenuto. Inoltre, la presenza di batteri resistenti agli antibiotici ha reso più urgente la necessità di alternative agli antimicrobici .

L’acido chinico, presente in diverse piante, ha mostrato significative proprietà terapeutiche. È stato identificato come un potente antiossidante, capace di ridurre i livelli di specie reattive dell’ossigeno (ROS) intracellulari nelle cellule trattate con perossido di , oltre a inibire la perossidazione lipidica.

Molti protocolli e metodi cromatografici sono stati sviluppati per ottimizzare l’estrazione dell’acido chinico, inclusi la cromatografia su colonna, l’idrolisi alcalina e le tecniche di estrazione liquido-liquido. Tuttavia, la maggior parte di questi metodi richiede l’uso di solventi e tempi di estrazione prolungati, e nessuno di essi è caratterizzato da una selettività elevata per l’acido chinico. Un approccio più recente propone la precipitazione dell’acido attraverso l’uso di sali metallici o idrossidi metallici, scelti tra rame, argento, ferro e nichel, ottenendo un sale che può essere convertito nuovamente in acido chinico.

Un’altra metodologia innovativa prevede l’uso di polimeri a impronta molecolare (MIP) per un’estrazione selettiva dell’acido chinico dai chicchi di caffè. Questi polimeri fungono da recettori progettati artificialmente, mostrando selettività e specificità per certe strutture molecolari biologiche e chimiche, rendendoli ideali per i processi di separazione.

Fonte Verificata

Alcol furfurilico utilizzato in vari settori industriali

L’alcol furfurilico (FFA), un composto organico avente formula C5H6O2, è caratterizzato dalla presenza di un con un gruppo idrossimetilico -CH2OH in posizione , rendendolo un alcol primario. Pur non essendo presente in natura, questo composto viene considerato un potenziale cancerogeno dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro e si forma durante i processi di riscaldamento o tostatura.

industriale

La produzione industriale dell’alcol furfurilico ha avuto inizio nel 1934, quando una nota azienda americana ha raggiunto una notevole conversione del 99% di furfurale in alcol furfurilico. Questo composto viene identificato come contaminante alimentare presente in alimenti trattati termicamente, quali caffè, succhi di frutta, prodotti da forno, e bevande alcoliche come vini e whisky, generato a seguito riduzione enzimatica o chimica del furfurolo durante diverse fasi di trattamento degli alimenti.

Proprietà e caratteristiche

L’alcol furfurilico è un liquido incolore o giallo pallido con un odore caratteristico simile alle mandorle, e presenta un sapore amaro. La sua esposizione luce e all’aria può provocare alterazioni chimiche, come l’autoossidazione. Ha una temperatura di fusione di –15°C e un punto di ebollizione di 170°C, ed è miscibile con l’acqua, mostrando anche una buona solubilità in vari solventi organici. A causa della sua reattività, è fondamentale conservarlo a basse temperature per preservarne l’integrità chimica.

Sintesi e applicazioni

La biomassa rinnovabile rappresenta una risorsa promettente come materia prima per la produzione di alcol furfurilico, attraverso la conversione del furfurale che viene trasformato a sua volta in questo composto mediante processi di idrogenazione selettiva. Inoltre, l’alcol furfurilico è alla base della produzione di resine furaniche, utilizzate in vari settori tra cui automobilistico e aerospaziale, e come sostanza chimica per la sintesi di farmaci. La capacità di modificare il legno, migliorandone la durabilità contro la degradazione, lo rende un componente chiave anche nella tecnologia degli adesivi per legno.

Fonte

N-butilammina: Nuove scoperte nel suo utilizzo

n-butilammina

Il mondo della della n-butilammina, nota anche come 1-amminobutano, si distingue per le sue proprietà e i potenziali utilizzi. Questa ammina primaria, con chimica CH3CH2CH2CH2NH2, è l’isomero della 2-metilpropan-2-ammina e del 2-amminobutano.

La n-butilammina si presenta come un liquido limpido e incolore, caratterizzato da un forte odore di ammoniaca. La densità è inferiore a quella dell’acqua, mentre i suoi vapori sono più pesanti dell’aria. È importante sottolineare che, sebbene non sia esplosiva né spontaneamente infiammabile in aria, la n-butilammina è infiammabile e corrosiva, con la potenziale di corrodere alcuni metalli in presenza di acqua.

Basicità della n-butilammina

Le ammine, come la n-butilammina, presentano un doppietto elettronico solitario sull’azoto, il che le qualifica come basi Brønsted e Lowry. Le ammine primarie mostrano una maggiore basicità rispetto all’ammoniaca, con la n-butilammina che presenta un valore di Kb di 6.03 · 10-4, rispetto al valore di 1.8 · 10-5 per l’ammoniaca. Questa differenza è attribuibile presenza di un gruppo alchilico legato all’azoto, che aumenta la densità di carica sull’azoto stesso.

Sintesi

Vari metodi possono essere utilizzati per la sintesi della n-butilammina. Un approccio prevede la reazione tra 1-butanolo e ammoniaca in presenza di ossido di alluminio:

CH3CH2CH2CH2OH + NH3 → CH3CH2CH2CH2NH2 + H2O

Un altro metodo implica la reazione dell’1-bromobutano con sodio azide in presenza di metanolo, seguendo la formazione della n-butilazide e procedendo successivamente alla riduzione dell’azide a ammina primaria.

Reazioni

La n-butilammina presenta reazioni tipiche delle ammine primarie, reagendo in condizioni leggermente acide con aldeidi e chetoni per formare la n-butilimmina. L’interazione dei composti comporta un attacco nucleofilo sull’ossigeno del gruppo carbonilico, portando alla formazione di intermedi e successivamente a un’immina.

Utilizzata anche con acido nitroso a basse temperature, la n-butilammina genera un sale di diazonio, che, con l’aumento della temperatura, subisce una reazione di decomposizione per produrre azoto, acqua e 1-butanolo.

Usi

La n-butilammina è considerata una materia prima chimica fondamentale e un intermedio nelle sintesi organiche. I suoi impieghi spaziano dall’industria chimica a quella agricola, passando per la medicina. Viene utilizzata come additivo per combustibili, inibitore della polimerizzazione della gomma e come precursore per la produzione di farmaci e pesticidi. In ambito farmaceutico, contribuisce alla sintesi della tolbutamide, un farmaco impiegato per la cura del diabete.

Fonte

Processo di elettrolisi dell’acqua salata del mare.

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L’elettrolisi dell’acqua di mare rappresenta una tecnologia innovative per la conversione energetica sostenibile. Questa metodologia ha la capacità di generare energia pulita attraverso la scissione dell’acqua di mare in idrogeno e ossigeno. Si offre così una soluzione per l’impiego di energia rinnovabile, specialmente nelle aree marittime profonde, consentendo la produzione locale di idrogeno e ammoniaca verde.

Produzione di materiali utili

Oltre alla generazione di idrogeno, l’elettrolisi dell’acqua marina può essere utilizzata anche per produrre materiali come il carbonato di calcio e l’idrossido di magnesio. Questi composti trovano applicazione in vari settori, inclusi l’edilizia, la bonifica ambientale e il sequestro del carbonio.

Tuttavia, l’elettrolisi diretta dell’acqua di mare presenta diverse difficoltà. La concentrazione elevata di sali, alcalinità e la presenza di specie corrosive possono compromettere non solo la stabilità, ma anche le prestazioni catalizzatori utilizzati nel processo. La sfida principale riguarda le corrosive dell’acqua marina, che possono ridurre significativamente l’efficienza e la durata dei catalizzatori.

Reazioni chimiche e problematiche

La reazione globale per l’elettrolisi dell’acqua di mare è equivalente a quella della scissione dell’acqua pura:
2 H2O → 2 H2 + O2

Composta da due semireazioni, essa dipende dal pH dell’ambiente. In un contesto acido, le semireazioni sono:
HER: 2 H$^+$ + 2 e$^–$ → H2
OER: 2 H2O → 4 H$^+$ + O2 + 4 e$^–$

In assenza di acidità, o in contesti neutri o alcalini, le semireazioni si presentano in questo modo:
HER: 2 H2O + 4 e$^–$ → H2 + 2 OH$^–$
OER: 4 OH$^–$ → O2 + 2 H2O + 4 e$^–$

Un ulteriore complesso di reazioni è dato produzione di cloro, che compete con la generazione di ossigeno, aumentando le problematiche legate alla corrosione e alla formazione di depositi indesiderati.

Le quantità significative di ioni presenti, come Na$^+$ e Cl$^–$, rendono cruciale la ricerca di metodi per mitigare l’impatto di questi elementi sui catalizzatori e sugli elettrodi, al fine di prolungarne la vita operativa. Progresso nella ricerca potrebbe rendere la produzione di idrogeno su larga scala un obiettivo raggiungibile.

Strategie di ottimizzazione per elettrodi e catalizzatori

La reazione di produzione di cloro risulta essere favorita dal punto di vista cinetico rispetto all’evoluzione di ossigeno. Nel contesto di un pH più basso, la barriera termodinamica aumenta con un incremento del pH, associato alla generazione di ipoclorito. Una volta raggiunto un pH oltre 7.5, l’evoluzione del cloro diventa predominante.

Gli ioni cloruro, adsorbendosi sull’anodo, contribuiscono alla corrosione cutanea e all’inefficienza del catalizzatore. È quindi fondamentale adottare una progettazione ottimale per gli elettrodi al fine di alleviare questi effetti avversi e migliorare l’efficienza globale.

La ricerca è attualmente rivolta verso materiali e strutture di catalizzatori resistenti alla corrosione, inclusi nanomateriali avanzati e rivestimenti protettivi. Questi materiali, tra cui il grafene e i nanotubi di carbonio, mostrano potenziali significativi nell’ottimizzare le prestazioni di elettrolisi dell’acqua marina.

In conclusione, l’elettrolisi dell’acqua marina può rappresentare una soluzione sostenibile per la generazione di energia, a patto di affrontare le sfide legate alla corrosione e alla stabilità dei catalizzatori. Con l’avanzare della ricerca, è probabile che nuovi materiali e tecniche possano emergere, rendendo tale tecnologia sempre più promettente per future.

Fonte Verificata

Polimeri a impronta molecolare innovano il settore dei materiali

I polimeri a impronta molecolare (MIP), noti anche come “anticorpi plastici”, rappresentano una categoria innovativa di recettori artificiali con l’abilità di legarsi in maniera altamente selettiva a determinati composti chimici. La tecnica alla base dell’imprinting molecolare trae ispirazione dalle interazioni tra enzimi e substrati, simile al meccanismo chiave-serratura. I MIP sono progettati per possedere una affinità e una selettività intrinseca per molecole target specifiche, emulando così le funzioni degli anticorpi, degli enzimi e dei recettori ormonali naturali.

Composti da monomeri funzionali e reticolanti, i polimeri a impronta molecolare svolgono una doppia funzione: forniscono gruppi funzionali per la formazione di complessi e generano cavità su misura per la molecola target. La scelta del modello per l’imprinting molecolare è influenzata da vari aspetti, tra cui la stabilità, il costo e la solubilità molecola, nonché la sua interazione con i monomeri.

Queste caratteristiche conferiscono ai MIP buone proprietà meccaniche, elevata resistenza a temperature e pressioni estreme e un’ottima tolleranza verso sostanze chimiche e condizioni ambientali avverse, rendendoli più robusti rispetto alle controparti biologiche.

Sintesi di polimeri a impronta molecolare

I MIP sono generalmente sintetizzati attraverso reazioni di copolimerizzazione, possono includere accoppiamento, reticolazione o innesto, utilizzando monomeri funzionali in presenza di molecole stampo. La sintesi comporta la polimerizzazione dei monomeri in una matrice polimerica, incorporando la molecola bersaglio per creare vuoti specifici. Gli solventi comunemente usati in questo processo includono toluene e acetonitrile.

Il metodo prevalentemente utilizzato per ottenere MIP è la polimerizzazione radicalica libera, tipicamente eseguita a temperature controllate e pressione atmosferica. La scelta dei reagenti è cruciale per il successo della sintesi, poiché consente di ottenere polimeri funzionali efficienti. Monomeri come acidi carbossilici sono comunemente impiegati, a seconda delle esigenze della molecola target.

Metodi di polimerizzazione

Il processo di sintesi dei MIP può variare, con metodi che includono polimerizzazione in massa, termica, o con luce UV. dei metodi più semplici implica la macinazione e la setacciatura del polimero risultante, consentendo di ottenere particelle di dimensioni desiderate. Tuttavia, di recente, sono stati sviluppati metodi alternativi come la polimerizzazione per precipitazione, che offre il vantaggio di formare microsfere più uniformi.

Questi metodi alternativi possono migliorare l’uniformità delle particelle e portare a una maggiore efficienza nella produzione di MIP. La di nanoimprinting, ad esempio, permette di creare polimeri a dimensioni nanometriche, aumentando l’area di superficie e massimizzando le posizioni di legame.

Applicazioni

Le applicazioni dei MIP si estendono a settori come la separazione cromatografica, i sensori, e la somministrazione di farmaci. alla loro capacità di imitare gli anticorpi, i MIP sono utilizzati anche in tecniche biochimiche per la misurazione di sostanze chimiche in soluzione. Inoltre, possono fungere da catalizzatori, replicando la selettività degli enzimi e degli anticorpi naturali.

I recenti sviluppi hanno valorizzato l’uso dei MIP nel recupero di inquinanti ambientali, grazie alla loro capacità di attrarre selettivamente molecole target, offrendo così un potenziale significativo per la gestione ettiva dei problemi di inquinamento.

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