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Esiste un vetro radioattivo: riconoscimento e rischi del vetro all’uranio

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Il all’uranio è un materiale caratterizzato da una composizione contenente uranio in percentuali generalmente inferiori al 2% in peso. Questo elemento, noto per il suo utilizzo nelle centrali nucleari, è stato apprezzato sin dall’antichità per le sue proprietà decorative. Il vetro all’uranio è in grado di emettere una fluorescenza verde brillante quando esposto a luce ultravioletta, come quella solare. La radioattività di questo materiale, sebbene presente, è molto bassa e non rappresenta un rischio per la salute, ad eccezione dei lavoratori che operano nella sua lavorazione, per i quali sono necessarie specifiche precauzioni.

Cos’è il vetro all’uranio e come riconoscerlo

La concentrazione di ossido di uranio nel vetro è limitata, generalmente compresa tra lo 0,% e il 2% in peso, conferendo al materiale una colorazione verde-giallastra. La combinazione con altri additivi può produrre diverse tonalità, talvolta virando verso il rosato. Al termine della lavorazione, il vetro all’uranio, se illuminato con luce ultravioletta, mostra un’intensa fluorescenza verde dovuta all’assorbimento e riemissione di onde elettromagnetiche.

Il vetro all’uranio è radioattivo ma non pericoloso

Il vetro contenente uranio è , ma la sua radioattività è considerata innocua. La quantità di radiazione emessa è inferiore a quella proveniente da sorgenti naturali comuni, come rocce e atmosfere. Studi indicano che le emissioni di radiazione del vetro all’uranio sono ben al di sotto dei limiti di esposizione sicuri. Tuttavia, è possibile che artigiani e lavoratori del settore debbano prestare attenzione per evitare l’inalazione o l’ingestione di uranio. Non ci sono rischi significativi associati al possesso di decorativi in vetro all’uranio, grazie a una maggiore consapevolezza e regolamentazione della produzione.

Il vetro all’uranio attraverso la storia

La scoperta dell’uranio risale al 1789, ma la sua isolazione come metallo puro avvenne solo nel 1841. Nel XIX secolo, l’uranio era utilizzato principalmente nella produzione di vetro. La scoperta della radioattività nel 1896 trasformò l’attenzione su questo elemento, portando a un crescente utilizzo in ambito scientifico e militare nel XX secolo. Attualmente, dopo la della guerra fredda, è ritornato all’uso anche per scopi decorativi. Origini più antiche dell’uso decorativo di uranio sono state rinvenute in mosaici romani risalenti al 79 d.C., suggerendo un impiego intenzionale di minerali uraniferi per ottenere colori distintivi.

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Le lingue più difficili da imparare nel mondo

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Imparare una nuova lingua può essere una sfida entusiasmante, ma alcune risultano particolarmente complesse da padroneggiare. La difficoltà nell’apprendere una lingua è influenzata anche dalla propria lingua madre; le neolatine, come l’italiano, il francese e lo spagnolo, mostrano similitudini che facilitano l’apprendimento reciproco. Questo articolo esplorerà le lingue considerate tra le più al : cinese mandarino, arabo, giapponese, russo, polacco, coreano e ungherese, ognuna con peculiarità che pongono sfide significative anche agli studenti più motivati.

Cinese mandarino

Il cinese mandarino è spesso considerato la lingua più difficile al mondo principalmente per il suo sistema di scrittura. Questo si basa su un vasto numero di caratteri (hànzì), ognuno dei quali ha un significato e una pronuncia specifici, rendendo la memorizzazione una sfida significativa, soprattutto per coloro che utilizzano alfabeti fonetici. Inoltre, il mandarino è una lingua tonale, in cui la variazione di tono di una sillaba può cambiare completamente il significato di una parola. Ad esempio, la syllaba “ma” può avere diversi significati a seconda del tono utilizzato.

Arabo

Per un madrelingua italiano, l’arabo rappresenta un’altra lingua estremamente complessa da imparare. Il suo alfabeto è completamente diverso, composto da 28 lettere che cambiano a seconda della loro posizione nella parola e si scrive da destra a sinistra. La pronuncia presenta suoni in italiano assenti, come “ع” (‘ayn) e “ح” (ḥā’), e la grammatica è basata su un sistema di radici trilittere da cui molte parole derivano.

Giapponese

Il giapponese è noto per la sua complessità, derivante principalmente dal sistema di scrittura che combina tre alfabeti: hiragana, katakana e kanji. I kanji, di origine cinese, richiedono una memorizzazione significativa dei loro tratti e significati, con almeno 2.000 caratteri da conoscere per essere considerati alfabetizzati. La grammatica giapponese presenta una struttura della frase soggetto-oggetto-verbo e l’uso di particelle per indicare le funzioni grammaticali.

Russo

Il russo è una sfida importante per gli italiani principalmente a dell’alfabeto cirillico e della complessità grammaticale. Utilizza sei casi grammaticali e tre generi, richiedendo una comprensione approfondita delle declinazioni. Inoltre, distingue fra verbi perfettivi e imperfettivi, un aspetto assente in italiano, complicando ulteriormente l’apprendimento.

Polacco

Il polacco appartiene alle lingue slave occidentali e presenta difficoltà nella fonologia e nella grammatica articolata. Sebbene utilizzi l’alfabeto latino, include segni diacritici e presenta suoni difficili da replicare per un italiano. La grammatica polacca prevede sette casi e distingue tre generi grammaticali, rendendo il suo vocabolario particolarmente poco familiare.

Coreano

Il coreano presenta alcune caratteristiche che ne facilitano l’apprendimento, come l’Hangul, un alfabeto relativamente semplice. Tuttavia, la grammatica è complessa, seguendo l’ordine soggetto-oggetto-verbo e richiedendo un uso preciso dei registri di cortesia nelle interazioni quotidiane. I suoni e il sistema di intonazione possono risultare difficili per un parlante italiano.

Ungherese

L’ungherese, appartenente alla famiglia delle lingue uraliche, è completamente diverso dalle lingue neolatine. Ha 18 casi grammaticali che richiedono attenzione alle declinazioni e presenta suoni vocalici e consonantici assenti in italiano. La flessibilità dell’ordine delle parole richiede conoscenze approfondite per costruire frasi corrette.

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La rivoluzione scientifica della teoria dell’evoluzione di Darwin

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Charles . Credit: Elliott & Fry, via Wikimedia Commons

La teoria dell’evoluzione di Charles Darwin, fondata sul meccanismo della selezione naturale, ha profondamente influenzato il campo della biologia, ed è ancora considerata una delle più significative teorie scientifiche di sempre. Secondo tale teoria, gli individui dotati di caratteristiche più adatte all’ambiente hanno maggiore probabilità di sopravvivere e riprodursi, tramandando così i loro tratti alle generazioni future. Questo processo, lento ma costante, permette l’evoluzione graduale delle specie nel tempo. Per arrivare a questa formulazione complessa, Darwin ha basato il suo lavoro su anni di ricerche e osservazioni fatte durante i suoi viaggi, e su numerose ipotesi formulate nel corso della sua carriera. La della pubblicazione del suo testo più noto, L’Origine delle specie, è centrale per comprendere una delle più importanti rivoluzioni scientifiche della storia.

Cosa dice la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin: i punti fondamentali

La teoria di Darwin, presentata in L’origine delle specie, è una delle fondamenta della biologia evolutiva. Secondo Darwin, tutte le specie viventi, siano esse animali o piante, discendono da un antenato comune e si sono differenziate nel tempo attraverso un processo graduale. I principali punti della sua teoria comprendono la variabilità dei caratteri, l’adattamento all’ambiente, l’ereditarietà dei caratteri innati e l’isolamento geografico. All’interno di ogni popolazione, le differenze tra gli individui sono significative, e gli individui con tratti vantaggiosi per il loro ambiente hanno maggiori probabilità di sopravvivere e riprodursi. Queste caratteristiche favorevoli si trasferiscono alle generazioni successive, modificando nel tempo le popolazioni in modo da migliorare l’adattamento all’ambiente.

L’evoluzione, secondo Darwin, è un processo naturale e continuo che scaturisce dall’interazione tra organismi e ambiente, senza alcun intervento esterno. Un esempio classico analizzato dal biologo è quello dei fringuelli delle Galapagos, nei quali ogni isola presenta uccelli con becchi di diversa, adattati in base alle risorse alimentari disponibili in ciascuna area.

fringuelli di darwin

Un esemplare di Geospiza fuliginosa, una delle specie note come fringuelli di Darwin.

Il contesto storico della teoria di Darwin

L’Origine delle specie, pubblicata per la prima volta a Londra il 24 novembre 1859, pose la comunità di fronte a temi e argomenti che fino a quel momento erano stati raramente esplorati. Nel suo testo completo, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, Darwin riassunse i suoi approfonditi studi, influenzati dal lavoro di illustri predecessori e dalle numerose scoperte scientifiche che caratterizzarono un secolo, il XIX, fondamentale per la storia della scienza.

Tra i ricercatori che influenzarono il pensiero di Darwin vi è il geologo scozzese Charles Lyell, fautore del principio dell’uniformitarismo. Questo principio suggerisce che i fenomeni geologici che vediamo oggi sono il risultato di processi lenti e graduali. Lyell denunciava il catastrofismo, una visione allora predominante, secondo cui le modifiche alla avvengono solo attraverso eventi catastrofici.

Thomas Robert Malthus ha avuto un importante impatto sulla formulazione della teoria di Darwin; i suoi modelli riguardo le dimensioni delle popolazioni e le risorse disponibili sono stati fondamentali nella sua analisi sull’evoluzione.

L’Origine delle specie, una pubblicazione rivoluzionaria

Darwin cominciò a riflettere sull’origine e l’evoluzione delle specie durante il viaggio effettuato a bordo del brigantino Beagle. Da lui stesso affermato, gran parte del suo studio era già completa nel 1844, ma l’autore attese 15 anni prima di pubblicare L’Origine delle specie. È importante sottolineare che non fu il solo a formulare una teoria riguardante l’evoluzione, poiché già Jean-Baptiste de Lamarck, nel 1809, aveva presentato una teoria fondata sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Inoltre, nel 1852, il filosofo Herbert Spencer aveva elaborato concetti vicini all’evoluzione, interpretata come una sopravvivenza degli individui più adatti.

Nel contesto di crescente interesse scientifico, un saggio dell’1858 dello zoologo Alfred Russel Wallace, redatto durante un viaggio in Indonesia, convinse Darwin a pubblicare finalmente i suoi studi. Wallace aveva sviluppato una teoria sulla selezione naturale molto simile a quella di Darwin, il che portò a una presentazione congiunta dei loro lavori presso la Linnean Society il 1° luglio 1858.

Questo momento, cruciale per la storia della biologia, culminò con la pubblicazione, un anno dopo, de L’Origine delle specie, un’opera che rese evidente il meccanismo dell’evoluzione per selezione naturale come chiave per spiegare la diversità dei viventi.

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L’ambra fossile: formazione, ubicazione e intrappolamento di insetti di milioni di anni fa

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L’ambra è una sostanza naturale di origine organica, caratterizzata da un aspetto vetroso, che si attraverso l’indurimento e la fossilizzazione delle resine vegetali. Queste resine, che colavano lungo i tronchi degli alberi in epoche geologiche passate, non si classificano come minerali nel senso stretto del termine. Da millenni, l’ambra è stata apprezzata per la creazione di gioielli e oggetti di uso quotidiano e ha svolto un ruolo nei riti religiosi. Per , geologi e paleontologi, rappresenta uno strumento fondamentale per studiare gli ecosistemi del passato, grazie alla capacità di conservare al suo interno fossili di piccoli animali vertebrati, insetti e resti vegetali, perfettamente preservati.

Cos’è l’ambra fossile e come si forma

L’ambra è una resina fossile solidificata, formata migliaia o milioni di anni fa, che si è mantenuta all’interno delle rocce sedimentarie fino ad oggi. Le resine, viscose e appiccicose, sono secrete da alcune piante, principalmente legnose come le conifere, per cicatrizzare le lesioni. Quando la resina esce da una crepa nella corteccia di un albero, si indurisce a contatto con l’aria e l’esposizione alla luce solare, creando una copertura rigida che protegge la pianta.

Gli agenti esogeni, come vento e pioggia, possono trasportare la resina, che si seppellisce nei sedimenti di laghi, pianure alluvionali o fondali marini. Con il tempo, questi sedimenti vengono sottoposti a elevate temperature e pressioni, avviando processi chimici e fisici, noti come diagenesi, che trasformano la resina in ambra fossile. La durata di questo processo può variare da centinaia di migliaia a milioni di anni, influenzata da vari fattori, come il tipo di resina e l’intensità dei processi diagenetici. Le resine non fossilizzate sono note come copale, sostanze più giovani e generalmente più morbide.

Caratteristiche delle ambre

Le ambre sono principalmente formate da carbonio, idrogeno e ossigeno, con tracce di zolfo. La loro densità è relativamente bassa, e possono presentarsi in una gamma di colori che va dal giallo pallido all’arancione, fino a tonalità più scure di rosso e marrone. La colorazione dipende da fattori come il tipo di albero e la presenza di impurità.

L’ambra ha una gravità specifica bassa e una durezza tra 2 e 2,5 sulla Scala di Mohs. Spesso contiene bolle d’aria microscopiche che le conferiscono la capacità di galleggiare, facilitando il trasporto in acqua.

Ambra, una resina fossile molto antica: cosa nasconde all’interno

La viscosità della resina le consente di intrappolare piccoli organismi durante la sua colata, contribuendo così alla conservazione di insetti fossili. Le ambre sono state una delle principali fonti di insetti fossilizzati, come dimostrato dalle zanzare del film Jurassic Park. Tuttavia, gli scienziati hanno rinvenuto vari animali intrappolati, come lucertole e rane. La conservazione di questi fossili all’interno dell’ambra è eccezionale, poiché i resti, avvolti dalla resina, vengono protetti dai processi naturali di degradazione.

Le ambre fossili più conosciute

Oltre 200 siti nel hanno restituito ambre fossili. Tra le più antiche, risalenti al Periodo Carbonifero, sono state scoperte in giacimenti di carbone nell’Illinois, negli Stati Uniti, ma non contengono fossili. In Italia, si sono trovate ambre nelle Dolomiti che includono specie di mosche e acari, datate circa 230 milioni di anni fa.

L’ambra baltica, originaria dei sedimenti dell’Eocene lungo le coste del Mar Baltico, è la più conosciuta e contiene oltre 3500 specie di artropodi. L’ambra domenicana, con un’età di 15-20 milioni di anni, ha restituito molte specie di insetti e vertebrati. L’ambra birmana, risalente a circa 99 milioni di anni fa, proviene dal Myanmar e testimonia un ecosistema diversificato, mentre l’ambra canadese, di 77-79 milioni di anni, ha rinvenuto diversi resti di insetti e addirittura piume di dinosauri. In Italia, l’ambra siciliana, o Simetite, è nota per il suo colore rosso scuro trasparente.

Utilizzi dell’ambra

L’archeologia suggerisce una varietà di usi dell’ambra fossile, associati a pratiche magiche, creazioni di utensili quotidiani, gioielli e lenti. Inoltre, l’ambra bruciata come incenso ha avuto un ruolo significativo in rituali religiosi.

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Aumentano le probabilità di impatto dell’asteroide 2024 YR4 sulla Terra, ma non c’è motivo di preoccuparsi

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Rappresentazione artistica di un asteroide.

L’asteroide 2024 YR4, scoperto il 27 dicembre 2024 dalla collaborazione ATLAS, è un corpo celeste di dimensioni comprese tra 40 e 90 metri. La sua rilevanza è dovuta alla relativamente alta di impatto con la prevista per il 22 dicembre 2032. Recenti valutazioni effettuate dagli astronomi dell’ESA indicano un rischio di impatto dell’2%, uno dei valori più elevati registrati per un asteroide. Allo stato attuale, l’asteroide presenta un rischio di 3 sulla scala Torino, che misura le possibilità di collisione con oggetti “near-Earth”.

La situazione di Apophis

Un caso emblematico è rappresentato dall’asteroide Apophis, il quale, alla sua scoperta nel 2004, vantava una probabilità di impatto del 2,7%. Con il miglioramento delle tecnologie e l’acquisizione di dati più precisi, questa probabilità è diminuita a zero per almeno un secolo.

La storia di Apophis in guardia: un asteroide recentemente scoperto, come 2024 YR4, può inizialmente presentare una stima non trascurabile di impatto, ma è consuetudine che queste probabilità possano aumentare in un primo momento per poi ridursi drasticamente. Le attuali notizie allarmistiche, frequentemente propinate dalla stampa, non riflettono necessariamente la reale evoluzione delle probabilità di impatto.

Il monitoring degli asteroidi

Quando un nuovo asteroide viene scoperto, gli astronomi iniziano a tracciare la sua orbita attorno al Sole. Questo è particolarmente importante nel caso in cui il corpo celeste si avvicini alla Terra, perché consente di valutare il rischio di collisione nel breve termine. Un asteroide delle dimensioni di 2024 YR4 potrebbe causare danni significativi, distruggendo una grande area se dovesse impattare il pianeta.

La determinazione dell’orbita di un asteroide avviene mediante osservazione continua, con gli astronomi che annotano le posizioni del corpo celeste nel cielo nel corso del . Man mano che vengono raccolti dati, l’incertezza sulla sua orbita diminuisce, permettendo di escludere molte delle traiettorie inizialmente possibili. Ciò porta a un apparente incremento delle probabilità di impatto, sebbene il numero complessivo di opzioni valide possa comunque rimanere massimo su percorsi non pericolosi.

Questo processo di raccolta dati continua fin quando 2024 YR4 si allontana dalla Terra, con osservazioni che si protrarranno fino a maggio 2025; il corpo celeste diventerà poi troppo debole per essere fino al prossimo avvicinamento previsto nel 2028. Durante quel periodo, i telescopi potranno riprendere gli studi per una migliore comprensione di questo asteroide.

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Le programmatrici dell’ENIAC erano chi

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Il 15 febbraio 1946, venne presentato al pubblico l’Electronic Numerical Integrator and Computer (ENIAC), il primo computer elettronico general-purpose della . Questa macchina era in grado di eseguire calcoli complessi in pochi secondi, operazioni che a mano avrebbero richiesto settimane. La narrazione dell’epoca enfatizzò il contributo di John Presper Eckert e John Mauchly, due ingegneri dell’Università della Pennsylvania, trascurando però il ruolo cruciale delle del progetto, conosciute come le “ENIAC girls“. Queste donne, tra cui Jean Jennings, Frances Elizabeth “Betty” Snyder, Kathleen “Kay” McNulty, Marlyn Wescoff, Ruth Lichterman e Frances “Fran” Bilas, sono ora riconosciute nella Women in Technology International Hall of Fame, nonostante per decenni il loro contributo sia stato dimenticato.

Chi erano le ENIAC girls

Durante gli anni ’40, le opportunità di carriera per le donne laureate in matematica erano limitate, con l’insegnamento come unica alternativa valida e ben pagata. Tuttavia, la Seconda guerra mondiale modificò questa situazione, portando gli Stati Uniti a cercare donne in ambiti tecnici come ingegneria e matematica a causa della mancanza di personale qualificato. Secondo il Women’s Bureau del Dipartimento del Lavoro, in quel periodo il messaggio era chiaro: “WOMEN WANTED”.

Nel 1942, l’esercito degli Stati Uniti reclutò matematiche per lavorare al Ballistic Research Laboratory, dove dovevano elaborare tabelle balistiche per supportare le operazioni militari. Questa attività richiedeva calcoli complessi, eseguiti manualmente da oltre 200 donne chiamate “computers”. Allenate a calcolare traiettorie, lavoravano con metodi che richiedevano giorni di lavoro per completare una singola tabella, spesso utilizzando strumenti come il Differential Analyzer.

Il ruolo dell’ENIAC

Nel 1943, il team guidato da John Mauchly e John Presper Eckert iniziò a lavorare a un computer elettronico, l’ENIAC, con l’obiettivo di eseguire rapidamente i calcoli balistici. Costato 500.000 dollari dell’epoca, l’ENIAC occupava un’area di circa 180 metri quadri e pesava 30 tonnellate. Pur avendo capacità pari a 5000 operazioni al secondo, necessitava ancora di un metodo per tradurre le equazioni matematiche in un linguaggio comprensibile per la macchina.

Herman Goldstine, a capo del progetto, selezionò sei matematiche per addestrarle a utilizzare l’ENIAC e sviluppare il software necessario. A differenza dei programmatori odierni, queste professioniste dovevano operare direttamente sull’hardware, cablando fisicamente la macchina e effettuando complessi collegamenti tra i vari componenti, un linguaggio di programmazione e con accesso limitato ai manuali.

Il debutto dell’ENIAC e la loro esclusione

Il 15 febbraio 1946, l’ENIAC venne presentato al pubblico. Per l’evento, Betty Snyder e Jean Jennings furono incaricate di programmare un calcolo di traiettoria. Nonostante i nella procedura iniziale, il calcolo venne eseguito in pochi secondi. Il New York Times celebrò l’invenzione, omettendo di menzionare il e lo sforzo necessari per programmare l’ENIAC.

Durante la cena di gala che seguì la dimostrazione, le due programmatrici non ricevettero inviti, un riflesso dell’atteggiamento del tempo nei confronti delle donne nel settore tecnologico. Nonostante le campagne per il reclutamento femminile, la loro storia rimase in gran parte ignorata fino al 1986, quando venne riconosciuto pubblicamente il loro contributo. Nel 1997, furono ufficialmente celebrate nella Women in Technology International Hall of Fame e nel 1955 l’ENIAC fu ritirato dopo dieci anni di servizio.

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Scienziati giapponesi creano una plastica resistente che si dissolve completamente negli oceani e mette fine alle microplastiche

I ricercatori del RIKEN Center hanno sviluppato una innovativa che mantiene la resistenza dei materiali tradizionali ma si degrada in mare. Questa scoperta potrebbe rappresentare una svolta significativa nella lotta contro l’inquinamento da , un problema crescente che minaccia gli ecosistemi marini e la salute umana.

Una plastica che si nell’acqua di mare

Le plastiche biodegradabili attualmente in uso non si degradano efficacemente nell’ambiente marino, contribuendo al problema delle microplastiche. In risposta a questa necessità, il team giapponese ha creato una nuova classe di materiali: i polimeri supramolecolari. Questi polimeri possiedono legami chimici reversibili che conferiscono loro resistenza e flessibilità, insieme alla capacità di rompersi in modo controllato a contatto con l’acqua di mare.

, sicura e sostenibile

Questa plastica non solo è biodegradabile, ma presenta anche vantaggi significativi rispetto ai materiali tradizionali. È non tossica, non infiammabile e non genera emissioni di CO₂ durante il processo di smaltimento. Inoltre, è completamente riciclabile, con il recupero del 91% dell’esametafosfato di sodio e dell’82% dello ione guanidinio dopo la dissoluzione in acqua salata. Questo apre a possibili applicazioni nell’economia circolare.

La degradazione nel suolo avviene in tempi sorprendentemente brevi: il materiale si dissolve completamente in soli 10 giorni, rilasciando fosforo e azoto, nutrienti essenziali per il terreno.

La ricerca continua e il prossimo passo sarà rendere questa plastica competitiva sul mercato, per favorirne un uso più ampio, in particolare nei settori dell’imballaggio e della produzione industriale.

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Perché i nidi a forma esagonale sono costruiti da api e vespe? La geometria delle celle

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Le celle che formano i nidi di insetti sociali, come api e , presentano una configurazione esagonale identica. Questo aspetto non è casuale, ma rappresenta una strategia geometrica ottimale. I nidi delle vespe, generalmente sferici, sono divisi in strutture denominate favi e sono costruiti utilizzando un misto di pasta di legno masticata e saliva, che dona loro una consistenza simile a quella della carta.

La sostanziale differenza tra un alveare e un nido di vespe sta nel materiale utilizzato: gli alveari sono realizzati in cera e assumono una forma a calice rovesciato, mentre i nidi di vespe, di forma sferica, si compongono di un materiale che ricorda il cartone.

Com’è fatto un nido di vespe

Le vespe, essendo insetti sociali, utilizzano un materiale simile al cartone per costruire il loro nido, composto da fibre di legno mescolate a saliva e resina. A seconda delle specie, i nidi vengono collocati in luoghi protetti e poco disturbati, come sottotetti, grondaie, intercapedini e vegetazione.

Un esempio notevole è quello della Vespa velutina, specie invasiva introdotta in Europa nel 2004, la cui struttura nido è complessa. La parte esterna è formata da diversi "fogli" sovrapposti che una barriera spessa e resistente, atta a difendere le vespe dai predatori e dalle variazioni di temperatura. Le cellette interne, organizzate in favi, sono disposte su livelli multipli collegati tramite pilastri realizzati con lo stesso materiale.

Come hanno imparato le vespe a costruire un nido così complesso

La costruzione dei nidi delle vespe è il risultato di strategie geometriche efficaci. Studi scientifici hanno dimostrato che questi insetti possiedono abilità innate per riconoscere e rispondere a concetti numerici basilari. Nonostante non abbiano una coscienza astratta degli esagoni, l’evoluzione ha selezionato questa forma per la sua efficienza in termini di risparmio energetico e protezione della prole.

L’esagono permette di coprire il massimo spazio lasciare vuoti e ha un perimetro inferiore rispetto ad altre forme geometriche. Questa caratteristica consente a vespe e api di costruire i loro nidi utilizzando meno materiale ed , massimizzando così l’efficienza.

Come riescono a unire celle grandi e celle piccole senza interrompere lo schema

La disposizione delle celle nei nidi presenta una sfida geometrica, poiché le dimensioni delle celle variano. Le vespe affrontano questa sfida implementando un metodo creativo: costruiscono coppie di celle con forme leggermente diverse, come una con cinque lati e l’altra con sette, per colmare il divario tra celle di diverse dimensioni, mantenendo intatto lo schema generale.

Questo metodo garantisce che ogni coppia di celle abbia lo stesso numero di lati aperti rispetto a celle tradizionali, assicurando che la struttura non solo si adatti, ma mantenga la propria coerenza geometrica.

Quanto vive una vespa? Il ciclo di vita

La struttura sociale delle vespe, nota come eusocialità, consente loro di costruire nidi complessi. La regina, dopo la fecondazione e il superamento dell’inverno, avvia la costruzione di un nido primario. Qui depone le prime uova, da cui nasceranno le vespe operaie, le quali proseguono l’opera di ampliamento del nido.

Una volta completata la prima fase, la colonia può procedere all’espansione del nido. Con l’avvento dell’autunno, emergono i maschi e le regine fertili. Con l’inverno, il nido si svuota; le giovani regine cercano riparo, mentre gli altri membri della colonia muoiono, garantendo così la perpetuazione della specie nel ciclo che riparte ogni primavera.

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I manoscritti di Marie Curie saranno radioattivi per altri 1600 anni a causa dell’esposizione a numerose radiazioni.

Le scoperte di Marie e del marito furono straordinarie, ma non senza conseguenze: esponendosi così tanto alle , i suoi manoscritti sono diventati radioattivi e lei è morta per un’anemia aplastica.

@Henri Manuel/Wikipedia

Marie Curie, pioniera della radioattività e prima donna a vincere un Premio Nobel, ha lasciato un’eredità scientifica significativa. Curie e suo marito Pierre scoprirono il polonio e il radio alla fine del XIX secolo, ignorando però i pericoli dell’esposizione prolungata a queste sostanze. La scienziata trascorreva le giornate nel suo laboratorio maneggiando elementi radioattivi senza alcuna protezione, spesso conservandoli persino nei cassetti della scrivania o portandoli nelle tasche del camice. L’entusiasmo per le nuove scoperte portava a osservare, affascinata, i bagliori emessi dalle provette contenenti radio e polonio, senza conoscere gli devastanti che queste radiazioni avrebbero avuto sulla sua salute.

La sua dedizione alla ricerca ebbe un costo altissimo: Curie morì infatti nel 1934 a causa di un’anemia aplastica, una malattia del sangue associata all’esposizione prolungata alle radiazioni. Anche gli da lei utilizzati quotidianamente subirono conseguenze. I suoi appunti, mobili e persino i suoi libri di cucina assorbirono la radioattività e risultano contaminati.

I manoscritti radioattivi

I manoscritti di Marie Curie, conservati presso la Biblioteca Nazionale di Francia, devono essere custoditi in contenitori speciali rivestiti di piombo in quanto sono ancora altamente radioattivi. Per consultare questi documenti, è obbligatorio indossare dispositivi di protezione e firmare una liberatoria. La radioattività di questi materiali, dovuta principalmente alla presenza di radio-226, avrà un’emivita di circa 1600 anni, il che implica che rimarranno pericolosi per molte generazioni future.

Un contributo rivoluzionario

Le ricerche di Curie hanno aperto la strada alla radioterapia, fondamentale per il trattamento di molte forme di cancro. Tuttavia, il caso della scienziata polacca rappresenta un monito sull’importanza di adottare misure di sicurezza nella ricerca scientifica. Il laboratorio in cui Curie operava e la sua abitazione a Parigi furono esposti a contaminazioni tali che, anni dopo la sua morte, l’area dovette essere bonificata a causa di un aumento sospetto di malattie oncologiche tra gli abitanti del quartiere. Pur essendo rivoluzionario il suo contributo, il prezzo pagato per queste scoperte evidenzia la necessità di un approccio responsabile nei confronti della ricerca.

Domani, 11 febbraio, si celebra la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, un’occasione per onorare l’eredità di Marie Curie e di tutte le donne che hanno influenzato la storia scientifica, contribuendo a migliorare il attraverso la ricerca.

Fonte: Focus.it

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Nuove prove scoperte da ossa umane di 18.000 anni fa

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Recentemente, alcune risalenti a 15.000-18.000 anni fa, ritrovate nella caverna Maszycka, in Polonia, hanno rivelato del consumo di carne umana, suggerendo la pratica del cannibalismo nell’Europa preistorica. Questo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature da un gruppo di ricerca dell’IPHES, l’Istituto Catalano di Paleoecologia Umana ed Evoluzione Sociale di Tarragona, che ha analizzato le ossa e ha trovato tracce di macellazione e consumo alimentare.

I resti esaminati includono diverse ossa appartenenti a dieci individui, di cui sei adulti e quattro subadulti. Le ossa presentano tracce di manipolazione intenzionale, tra cui tagli e abrasioni, nonché segni di macellazione finalizzata al consumo delle carni, con evidenti tracce di esposizione al fuoco. In particolare, le ossa lunghe risultano essere state spezzate intenzionalmente per accedere al midollo. A differenza degli contesti coevi, dove le ossa venivano trattate con rispetto, quelle della caverna di Maszycka sono state trovate insieme a resti di animali macellati e consumati.

ossa cannibalismo polonia
In blu sono indicati i punti in cui sono state riscontrate manipolazioni alle ossa preistoriche ritrovate nella caverna Maszycka in Polonia. Credit: Marginedas et al. (2025)

In considerazione dell’età dei resti, gli studiosi hanno ipotizzato che potrebbero appartenere a un singolo gruppo familiare, composto da adulti e bambini, che avrebbe potuto essere sterminato e cannibalizzato nel contesto di tensioni tra diversi gruppi di cacciatori-raccoglitori dell’Europa Centrale durante il Paleolitico Superiore. Questo studio invita a riconsiderare le ossa manipolate post-mortem in altri contesti paleolitici europei, che sono stati fino ad ora considerati esclusivamente come pratiche funerarie.

Presso le società di cacciatori-raccoglitori del periodo magdaleniano, noto per le culture umane dell’ultima fase del Paleolitico Superiore in Europa Occidentale, la manipolazione post-mortem dei cadaveri era una prassi comune, probabilmente legata a determinati culti religiosi e a pratiche funerarie. Le frequentissime evidenze di manipolazione sulle ossa craniali suggeriscono un legame con il culto degli antenati. Inoltre, spesso le ossa dei defunti venivano trasformate in utensili, e lo studio di tali resti ha consentito di individuare anche segni di consumo di carne umana in alcune circostanze.

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Funzionamento degli smart tag per il ritrovamento degli oggetti smarriti

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Gli smart sono dispositivi di localizzazione progettati per assistere gli utenti nel ritrovare oggetti , come chiavi, zaini o valigie, contribuendo a ridurre la probabilità di perdere accessori e oggetti importanti nella . Questi dispositivi operano utilizzando tecnologie di comunicazione wireless, quali Bluetooth, NFC (Near Field Communication) o connessioni cellulari, e si interfacciano con un’app dedicata sullo smartphone che consente il tracciamento. La loro funzionalità varia a seconda del modello, consentendo di ritrovare oggetti nelle immediate vicinanze o di localizzarli a distanza grazie alle reti di dispositivi connessi.

Tipologie di smart tag

Gli smart tag si categorizzano in tre principali tipologie, distinte in base al sistema di localizzazione utilizzato:

  • I dispositivi più semplici, che operano tramite Bluetooth o NFC, consentono di rintracciare oggetti nelle vicinanze ma con un raggio d’azione limitato, generalmente tra 50 e 120 metri. Un esempio è il Chipolo One, con un raggio d’azione di circa 100 metri.
  • Dispositivi più avanzati come gli AirTag di Apple o i Galaxy SmartTag2 di Samsung, che oltre al Bluetooth sfruttano reti di dispositivi connessi per migliorare la copertura. Gli AirTag utilizzano la rete dell’ecosistema Apple per localizzare gli oggetti in modo sicuro e anonimo, integrando anche il Precision Tracking tramite tecnologia Ultra-Wideband.
  • Smart tag con SIM integrata, come il Salind 20 4G, utilizzano reti cellulari per un tracciamento globale di oggetti, rendendoli ideali per bagagli e oggetti di valore. Questi dispositivi richiedono typicamente un abbonamento al servizio di localizzazione.

Funzioni degli smart tag

Un aspetto distintivo degli smart tag è la loro interazione con smartphone che facilita il processo di localizzazione. Alcuni modelli sono progettati per emettere un suono, rendendoli più facilmente rintracciabili, mentre possono assistere nell’individuare lo smartphone collegato tramite un’apposito pulsante. Inoltre, i tracker con funzionalità NFC possono fornire informazioni di contatto a telefoni compatibili in caso di da parte di terzi.

Uso e sicurezza degli smart tag

Per utilizzare un smart tag, è necessario scaricare l’app specifica, attivarlo e associarlo allo smartphone. A questo punto, il dispositivo può essere fissato all’oggetto da monitorare. Gli utenti possono rintracciare l’oggetto smarrito in vari modi, incluso l’emissione di suoni per facilitare il recupero e sfruttando reti di dispositivi compatibili se l’oggetto è fuori dal raggio d’azione diretto. La sicurezza è una priorità: i produttori hanno implementato misure per evitare usi impropri, come il tracciamento non autorizzato, con avvisi forniti da dispositivi come AirTag e smart tag di Samsung e Google.

Gli smart tag configurano un’efficace soluzione per la gestione degli oggetti di valore, con tecnologie diversificate adatte a diversi requisiti e budget, contribuendo a ridurre le perdite quotidiane di oggetti importanti.

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Ostacoli e conquiste femminili nella storia

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Dal 2015, l’11 febbraio è stato designato come Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza. Questa giornata ha lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere una maggiore equità di genere nei settori STEM. Nonostante i progressi realizzati nel corso degli anni, permangono retaggi storici che influenzano le attuali opportunità per le donne nella scienza.

Le donne hanno storicamente affrontato barriere significative per l’accesso all’istruzione. In epoche passate, la loro formazione si limitava al contesto conventuale, dove si studiavano principalmente discipline come la pittura, la scrittura e la poesia, con scarso accesso alle scienze. Le eccezioni a questa situazione spesso rappresentate da donne che appartenevano a famiglie di scienziati. La possibilità per le donne di iscriversi alle università in Italia è stata formalmente riconosciuta solo alla dell’Ottocento, sebbene le università siano esistenti fin dal 1088. Eccezioni illustri come Elena Lucrezia Corner Piscopia, che conseguì il diploma all’Università di Padova nel 1678, e Laura Bassi, prima donna a ottenere una cattedra universitaria nel Settecento, rappresentano le difficoltà superate nel corso della storia.

Il percorso delle donne nella scienza

È solo nel Novecento che molte nazioni hanno cominciato a garantire l’accesso universitario alle donne come un diritto. Prima, il panorama scientifico era dominato dagli uomini, che spesso sostenevano l’idea di una presunta inferiorità femminile. Tuttavia, delle donne eccezionali, come Laura Bassi, Emmy Noether e , hanno tracciato un percorso significativo nella storia della scienza, affrontando e superando barriere incredibili.

Le sfide contemporanee

Nel corso del XX secolo, è aumentato il numero di donne attive in campi come l’astronomia, la matematica e la chimica. Figure come Margherita Hack hanno contribuito a trasformare l’immagine della donna nella scienza, ma il retaggio culturale perdura e continua a condizionare le scelte professionali delle donne. Oggi nelle facoltà scientifiche, il 40% degli studenti è femminile, e questo dato è in crescita. Tuttavia, nelle posizioni di vertice, la percentuale di donne scende decisamente sotto il 30%, a causa del fenomeno conosciuto come glass ceiling, una barriera invisibile che ostacola la carriera di molte ricercatrici.

Il divario di genere, frutto di un passato complesso, influisce tuttora sulle carriere delle donne. Tuttavia, il numero crescente di donne che emergono nelle scienze, nella politica e in altri ambiti sta creando modelli di riferimento significativi, aprendo la strada a generazioni di ragazze e giovani donne.

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