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Arsenico: proprietà, preparazione, composti

Arsenico: caratteristiche, ottenimento e composti

L’arsenico è un elemento chimico con numero atomico 33, appartenente al gruppo 15 della tavola periodica insieme all’azoto e al fosforo, con una massa atomica di 74.9216 u e densità di 5.7 g/cm^3.

Proprietà dell’arsenico

L’arsenico si presenta in tre forme allotropiche: giallo, grigio stabile e nero. Si trova in natura principalmente come solfuro, presente nell’arsenopirite FeAsS e in altri minerali come il realgar rosso arancio As4S4 e l’orpimento giallo As2S3.

Metodi di ottenimento

L’arsenico può essere ottenuto per dell’arsenopirite o per riduzione dell’ossido As4O6 ottenuto per arrostimento dei .

Composti dell’arsenico (III)

L’arsenico nello stato di ossidazione III dà luogo all’idruro e agli arseniuri. L’ AsH3 è un gas simile alla ma più instabile, mentre gli arseniuri si formano con molti metalli. L’arsenico forma anche due ossidi: il triossido e il pentossido.

Composti dell’arsenico (V)

Il pentossido di arsenico, ottenuto per disidratazione di acido arsenico H3AsO4, perde ossigeno per riscaldamento per dare il più stabile triossido. Oltre alla forma orto esistono anche forme dell’acido arsenico come, ad esempio, (HAsO3). L’arsenico forma numerosi solfuri, tra cui As2S3, As4S4, As4S3 e As2S3, che sono solubili in alcali e in solfuri alcalini.

Inoltre, sono noti tutti i trialogenuri di arsenico AsX3, chimicamente simili a quelli del fosforo, ottenuti per sintesi diretta o trattando il triossido con un acido HX.

L’arsenico è un elemento dalle molte sfaccettature, con molteplici composti e proprietà che lo rendono un elemento di interesse nell’ambito della chimica e della scienza in generale.

Potere tamponante: bilancio di carica

Il Potere tamponante e il Bilancio di carica nelle

Le tampone sono costituite da un acido debole e dalla sua o da una base debole e il suo acido coniugato. Queste soluzioni sono caratterizzate dal fatto che il pH rimane praticamente invariato anche dopo l’aggiunta di piccole quantità di acido o base forte.

Esistono varie definizioni del potere tamponante, ma in generale può essere definito come la massima quantità di acido o base forte che può essere aggiunta alla soluzione tampone prima che si verifichi una significativa variazione di pH. Tuttavia, questa definizione generica dipende dal contesto in cui si lavora, poiché in alcuni casi anche una variazione di 0. unità di pH può essere significativa, specialmente nei sistemi biologici.

Un’altra definizione pratica del potere tamponante è la quantità di acido o base forte che deve essere aggiunta a un litro di soluzione affinché si verifichi la variazione di un’unità di pH. Tuttavia, questa definizione fornisce valori diversi di potere tamponante a seconda che si aggiunga un acido o una base, a meno che la soluzione non sia equimolecolare e il suo pH sia uguale al pKa.

Il bilancio di carica della soluzione è espresso dalla relazione [A-] + [OH-] = [B+] + [H+], dove [B+] rappresenta la concentrazione della base forte presente in soluzione.

La concentrazione totale della soluzione tampone (Cbuff) è data da Cbuff = [HA] + [A-]. Mentre l’espressione della costante acida (Ka) è Ka = [H+][A-] / [HA].

Il potere tamponante è definito dall’equazione β = dn / dpH, dove è il numero di equivalenti di base forte aggiunti. Questa equazione esprime il potere tamponante in relazione alla variazione di pH.

La capacità tamponante mostra un picco al valore di pH corrispondente a 4.74, che è il valore del pKa dell’acido acetico, evidenziando che una soluzione tampone esplica il suo potere tamponante quando la concentrazione dell’acido e della sua base coniugata sono simili.

In conclusione, il potere tamponante è un concetto fondamentale nelle soluzioni tampone e la sua comprensione è essenziale per comprendere il comportamento di tali soluzioni in diverse situazioni chimiche e biologiche.

Cromatografia su carta ascendente e discendente

La cromatografia su carta: scopri come funziona

La cromatografia su carta è una tecnica di separazione utilizzata in chimica analitica. A partire dagli anni ’40, è stata impiegata per separare gli amminoacidi utilizzando la carta come supporto per la fase stazionaria durante la cromatografia di ripartizione. In questo metodo, il solvente impiegato è l’-butanolo, poiché i coefficienti di ripartizione tra questo solvente e l’acqua variano gradualmente in base alla composizione degli amminoacidi.

Il processo di cromatografia su carta prevede l’immersione di un’estremità di un foglio di carta da filtro in un solvente organico precedentemente satura d’acqua. Successivamente, una soluzione contenente le sostanze da separare viene depositata sulla carta poco al di sopra della zona bagnata dal solvente. Successivamente, il foglio e il solvente vengono posti in una campana di vetro per evitare l’evaporazione del solvente, consentendo al liquido di risalire lungo il foglio per capillarità.

Durante questo processo, le diverse sostanze si muovono con una velocità determinata dal loro tra la fase mobile (costituita dal solvente organico) e la fase fissa (costituita dall’acqua). Una volta che il fronte del solvente raggiunge l’estremità superiore del foglio, l’operazione viene interrotta. Successivamente, la carta viene essiccata e le varie sostanze vengono rivelate utilizzando specifici reattivi, il che permette di visualizzare i cromatogrammi come una serie di macchie colorate.

Esistono diverse tecniche di cromatografia su carta, e tra queste troviamo la cromatografia monodimensionale ascendente e discendente, nonché la .

La cromatografia monodimensionale ascendente si basa su una separazione verticale, in cui il solvente si muove unicamente per capillarità. In questa tecnica, la carta da cromatografare viene fatta scendere in un recipiente contenente il solvente, permettendo al liquido di trascinare con sé le sostanze da separare.

D’altra parte, la richiede l’utilizzo di specifiche camere cromatografiche a tenuta per mantenere l’ambiente satura di vapori del solvente, durante la procedura di eluizione. Qui, l’eluente si muove verso il basso per gravità, consentendo tempi di eluizione più brevi.

La cromatografia bidimensionale rappresenta una tecnica più avanzata, impiegata quando un solo solvente non è in grado di separare completamente tutti i componenti di una miscela di sostanze. In questa tecnica, la miscela da separare viene posta su un angolo di un foglio di carta, che è sospeso in una camera cromatografica simile a quella utilizzata nel metodo discendente. Dopo l’asciugatura del foglio, viene utilizzato un secondo solvente che si muove in direzione perpendicolare al primo, consentendo l’identificazione simultanea di numerosi amminoacidi.

In definitiva, la cromatografia su carta è una tecnica versatile e preziosa per la separazione e l’ di varie sostanze, offrendo diverse metodologie che consentono di adattare il processo alle specifiche esigenze di separazione.

Efflorescenza: sali idrati, rimedi

: cause e rimedi contro l’efflorescenza

L’efflorescenza è un fenomeno che si verifica quando i sali idrati perdono le molecole d’acqua di cristallizzazione a causa della differenza di tra il composto idrato e l’ambiente circostante. Questo fenomeno è comune nei sali che contengono molecole di acqua combinate in un rapporto definito all’interno del del composto.

Ad esempio, il solfato di contiene due molecole di acqua nella sua struttura, e la sua formula è CaSO4 · 2 H2O. Allo stesso modo, il solfato di rame (II) può esistere in forme diverse a seconda del grado di idratazione, con la forma anidra di colore bianco grigiastro e la forma pentaidrata di colore blu brillante.

L’efflorescenza si verifica quando la tensione di vapore dell’acqua presente nel sale idrato è maggiore rispetto alla pressione parziale del vapore acqueo nell’aria, in condizioni di bassa umidità. Questo fenomeno è comune nel campo dell’edilizia e può causare alle superfici in muratura, stucco o cemento.

La formazione di depositi salini è dovuta ai sali solubili che migrano in superficie quando l’acqua di cristallizzazione evapora. Questi depositi possono compromettere la resistenza del materiale e favorire la penetrazione di acqua e sali solubili all’interno della struttura. Inoltre, l’evaporazione dell’acqua può causare la formazione di depositi di sale sotto la superficie, noti come sub-efflorescenza, che possono danneggiare il materiale.

Per eliminare l’efflorescenza è necessario rimuovere il materiale incoerente con spatole e scalpelli, seguito da una pulitura a secco con spazzole di saggina e una pulitura a umido mediante bagnatura con acqua distillata e successivo sfregamento con spazzole. Infine, è consigliabile applicare un impregnante-consolidante e un prodotto idrorepellente per prevenire la ricomparsa dell’efflorescenza.

In conclusione, l’efflorescenza è un problema comune legato alla perdita delle molecole d’acqua di cristallizzazione nei sali idrati, ma può essere gestito efficacemente attraverso interventi di pulitura e protezione delle superfici interessate.

Curva di solubilità: spiegazioni

La curva di spiegata

La curva di solubilità mostra come la quantità di sale come nitrato di potassio, nitrato di sodio e cloruro di sodio varia con la . È misurata in termini di quanta massa di sale si può sciogliere in 100 g di acqua a una temperatura specifica. Quando la soluzione contiene una quantità aggiuntiva di sale diventa satura e mostra la formazione di cristalli sul fondo.

In generale, la solubilità della maggior parte dei sali aumenta con l’incremento della temperatura, mentre per alcuni sali come il solfato di e il solfato di cerio, un aumento della temperatura comporta una diminuzione della solubilità. Questa variazione può essere evidenziata osservando una curva di solubilità relativa ad un particolare sale come il nitrato di potassio. Ad esempio, a una temperatura poco al di sotto di 60°C, si scioglieranno 100 g del sale in 100 g di acqua. Mentre al di sotto di 60°C, si formerà una miscela costituita da due fasi: soluzione e nitrato di potassio solido.

Le curve di solubilità forniscono informazioni significative sulle sali acquose. Ad esempio, l’ioduro di potassio ha la solubilità più alta a 0°C mentre il clorato di potassio ha la solubilità più bassa a 0°C. La solubilità del nitrato di potassio è bassa a 0°C ma aumenta notevolmente all’aumentare della temperatura. Al contrario, la solubilità del cloruro di sodio non è fortemente influenzata dalla temperatura.

Inoltre, le curve di solubilità consentono di fare deduzioni interessanti. Ad esempio, considerando che a 10°C 100 g di acqua solubilizzano 70 g di NH3 e a 80°C solubilizzano 14 g, si può dedurre che 56 g di ammoniaca gassosa fuoriusciranno dalla soluzione. In un altro esempio, a 50°C si solubilizzano 50 g di cloruro di in 100 g di acqua, mentre a 20°C si solubilizzano circa 38 g, quindi 12 g di cloruro di ammonio si presenteranno come corpo di fondo se la soluzione viene raffreddata.

In conclusione, le curve di solubilità forniscono informazioni cruciali sul comportamento dei sali in soluzione. Ad esempio, utilizzando la curva di solubilità, è possibile determinare la quantità di sale che si scioglie in una data quantità di acqua a una determinata temperatura.

Indice di van’t Hoff e costante acida: esercizi

Indice di van’t Hoff e costante acida: esercizi svolti

L’indice di vant’Hoff è un numero adimensionale che è correlato, per gli , al α e alla . Gli elettroliti contenuti in una soluzione si dissociano totalmente (elettroliti forti) o parzialmente (elettroliti deboli).

Calcolare la costante acida Ka di un acido monoprotico

Si consideri una soluzione 0.0100 M di un acido monoprotico con una pressione osmotica di 200.0 torr a 25.0 °C. Innanzitutto si effettuano le opportune conversioni: la pressione osmotica p = 200.0 torr si converte in atm e la T = 25.0 °C si converte in kelvin. Per definizione, la pressione osmotica p = CRT ∙ i, dove p è la pressione, C è la concentrazione molare, R è la costante universale dei gas, T è la temperatura e i è l’indice di van’t Hoff. Risolvendo l’equazione, si ottiene la dissociazione percentuale i = .075, da cui è possibile calcolare la costante acida Ka e ottenere il valore 6.08 ∙ 10-5.

Calcolare la ionizzazione percentuale dell’acido nitroso

Si consideri una soluzione 0.0350 M di acido nitroso con una pressione osmotica di 0.930 atm a 22.0 °C. Determinando l’indice di van’t Hoff dai dati della pressione osmotica, si ottiene i = 1.10. Ciò implica che da una mole di tale acido si ottengono 1.10 moli, quindi la ionizzazione percentuale dell’acido nitroso è del 10.0%.

Calcolare la Ka di HOCN

Si consideri una soluzione 0.0100 M di HOCN con una pressione osmotica di 217.2 torr a 25.0 °C. Dopo opportune conversioni e risoluzione dell’equazione, si trova che l’indice di van’t Hoff è 1.17. Da 1 mole di HOCN si ottengono 1.17 moli, quindi la costante acida Ka risulta pari a 1.55 ∙ 10-4.

Derivati del benzene: denominazione, esempi

Derivati del benzene: come identificarli e denominarli

La denominazione dei derivati del benzene può essere più complessa rispetto a quella dei composti a catena lineare. Il benzene è costituito da un esagono regolare e la sua formula è C6H6, con ciascun atomo di carbonio legato a un atomo di idrogeno. Ad esempio, il gruppo fenil deriva formalmente dal benzene per rimozione di un atomo di idrogeno.

I derivati del benzene possono avere diversi sostituenti. Nel caso in cui sia presente un solo sostituente, alcuni esempi di denominazione includono il clorobenzene (C6H5Cl), il nitrobenzene (C6H5NO2), il metilbenzene (C6H5CH3), noto anche come toluene o toluolo, e l’ (C6H5COOH), comunemente chiamato anche acido benzencarbossilico.

Nei casi in cui il nome è basato sul gruppo fenil, si possono trovare composti come la fenilammina (C6H5NH2), conosciuta anche come , e il feniletene (C6H5CH=CH2), che può essere considerato derivante dall’etene in cui al posto di un idrogeno è presente il gruppo fenilico. Altri esempi includono la feniletanone (C6H5COCH3), noto anche come acetofenone, e il (C6H5OH), chiamato anche acido fenico, acido carbolico o idrossibenzene.

Quando più di un gruppo è legato all’anello benzenico, la denominazione dei composti può seguire un sistema di numerazione esteso o utilizzare i prefissi orto-, meta- o para- per indicare le posizioni dei sostituenti. Ad esempio, il composto C6H5(NO2)2 può essere denominato ,3-dinitrobenzene o meta dinitrobenzene.

In presenza di due o più legati al benzene, è importante considerare la priorità dei gruppi funzionali nella denominazione del composto. Ad esempio, se sono legati i gruppi –COOH e –OH in posizione orto (1,2-), il composto verrà denominato con il nome del gruppo funzionale avente priorità maggiore, come acido benzoico. In questo caso, il composto sarà chiamato acido 2-idrossibenzoico, noto anche come acido orto-idrossibenzoico o acido salicilico.

Ci sono molti altri derivati del benzene con nomi diversi basati sulle loro strutture molecolari e sulle posizioni dei sostituenti legati all’anello benzenico. La loro corretta denominazione è fondamentale non solo per la chimica organica, ma anche per la comprensione delle proprietà e delle applicazioni di questi composti.

Come preparare in casa una crema per il corpo

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Creare una crema per il corpo fatta in casa è semplice e può essere realizzata con pochi ingredienti, in poco tempo e a un costo contenuto.

I benefici di fare una crema per il corpo in casa sono molteplici: oltre al risparmio economico, si ha la possibilità di utilizzare la propria fragranza preferita e, una volta acquisita esperienza, è possibile personalizzare le quantità degli ingredienti in base alle proprie esigenze.

I prodotti in commercio spesso contengono conservanti come butilidrossianisolo e per evitare la formazione di muffe dovute all’acqua contenuta. Inoltre, è importante notare che solo i prodotti con una durata minima inferiore ai 30 mesi devono riportare la data di scadenza.

Anche se un prodotto è chiuso, può subire deterioramento che l’acquirente ne sia consapevole, poiché sulla confezione è riportato solo il PAO (Period After Opening), ovvero il periodo di utilizzo dopo l’apertura.

Inoltre, i prodotti commerciali contengono spesso profumi di origine sintetica, che potrebbero non essere graditi da tutti.

Come preparare una crema per il corpo fatta in casa

Gli ingredienti necessari per preparare una crema per il corpo fatta in casa sono semplici:

½ tazza di burro di karité

¼ di tazza di olio di cocco

¼ di tazza di olio di mandorle dolci

30 gocce circa di olio essenziale

Procedimento:

  • Mettere tutti gli ingredienti, ad eccezione dell’olio essenziale, in una casseruola e scioglierli a fuoco medio.
  • Spegnere il fuoco e aggiungere l’olio essenziale.
  • Far raffreddare e mettere il composto in frigo per almeno 8 ore. Passato il tempo, montare il composto con una frusta o una planetaria così come si monta l’impasto per i dolci.
  • Riporre in un barattolo chiuso e conservare il prodotto in luogo fresco e asciutto.
  • Se si desidera una crema meno grassa si può aggiungere un cucchiaio di fecola di maranta nota come polvere di Arrowroot.
  • La crema, non contenendo conservanti, si conserva per almeno tre mesi e la crema ottenuta con le quantità consigliate dovrebbe essere consumata entro questo tempo.

Se si vuole prolungare la durata della crema, questa può essere conservata in frigorifero.

Coefficiente di Hill: legame cooperativo

Il Coefficiente di Hill: un Approfondimento sul Legame Cooperativo

Il coefficiente di Hill è un’importante strumento utilizzato nell’ambito della biochimica per stimare il numero di molecole di leganti necessarie per legarsi a un recettore in grado di produrre un effetto funzionale. Questo parametro risulta particolarmente rilevante nello studio delle proprietà cinetiche di diverse classi di , in particolare quelli caratterizzati da coopertività positiva.

Cooperatività Positiva e Legame Cooperativo

La cooperatività positiva si verifica quando il legame del legante al primo sito incrementa l’affinità degli altri siti verso i loro substrati, determinando un aumento di velocità ad un valore più alto di [S] fino al raggiungimento della massima velocità. Questa peculiarità cinetica porta alla caratteristica curva a forma sigmoide, osservabile rappresentando la del substrato sull’asse delle ascisse e la velocità su quella delle ordinate.

Il fenomeno della coopertività positiva è stato inizialmente osservato nell’interazione tra ossigeno ed emoglobina, ma si applica anche ad altri contesti biochimici. Esso implica un’allosteria, ovvero la regolazione di un enzima o di una proteina mediata da una molecola denominata effettore che svolge tale funzione legandosi al sito allosterico. Questi effettori possono essere omotropi o eterotropi a seconda che presentino o meno la stessa natura chimica del substrato dell’enzima.

Il e l’

Il grado di cooperatività è determinato dall’equazione di Hill per cinetiche che non seguono l’equazione di Michaelis-Menten. Tale equazione tiene conto del legame allosterico in siti diversi dal sito attivo ed è espressa come θ = [L]^ / Kd + [L]^n = [L]^n / (KA)^n+ [L]^n.

Dove θ si riferisce alla frazione di legando legata ai siti riempiti, [L] è la concentrazione del legando, Kd è la costante di dissociazione apparente ottenuta dalla legge di azione di massa, KA è la concentrazione del legando necessaria ad occupare la metà dei siti di legame e rappresenta la costante di dissociazione microscopica, mentre n è il coefficiente di Hill che descrive la cooperatività.

Modelli di Cooperatività: Concertato e Sequenziale

Esistono due modelli che illustrano la cooperatività: il modello concertato detto MWC e il modello sequenziale. In entrambi i modelli, le subunità enzimatiche esistono in due conformazioni T (teso) e R (rilassato) in equilibrio tra loro. Mentre il modello concertato le subunità enzimatiche sono strettamente legate in modo che la variazione conformazionale di una provochi una variazione anche nelle altre, nel modello sequenziale le subunità non sono strettamente collegate.

In ambedue i casi, le subunità R si legano al substrato più rapidamente rispetto a quelle nello stato T, ma differiscono nella preesistenza di entrambi gli stati e nell’interazione delle subunità. Secondo il modello concertato, in assenza di leganti l’equilibrio favorisce uno dei due stati conformazionali T o R. Invece, nel modello sequenziale le molecole del substrato si legano attraverso un adattamento indotto.

In conclusione, il coefficiente di Hill e la cooperatività positiva giocano un ruolo fondamentale nello studio della cinetica degli enzimi, offrendo approfondimenti cruciali per la comprensione dei meccanismi biochimici sottostanti.

pH di sali anfiprotici: esercizi

Il calcolo del di sali anfiprotici, ovvero di specie che sono in grado sia di donare che di accettare un protone, è un argomento di studio che richiede un’ approfondita. Questo equilibrio simultaneo è di difficile ottenimento e richiede l’utilizzo di equazioni specifiche per determinare il pH di tali sostanze.

Alcuni esempi di sali anfiprotici sono il bicarbonato HCO3 e il bisolfato HSO4. Tali composti hanno la particolarità di contenere idrogeno nella loro formula, rendendoli capaci sia di agire da acidi che da . Le reazioni di equilibrio a cui possono andare incontro sono chiaramente descritte dal trasferimento di protoni in soluzione.

Per determinare il pH di un sale anfiprotico, è possibile utilizzare le equazioni Ka1, Ka2 e il . Questo permette di stabilire la degli ioni H+ in soluzione, in modo da determinare il pH del composto. L’utilizzo di tali formule rappresenta un metodo efficace per ottenere risultati precisi.

Per comprendere meglio questo processo, facciamo riferimento ad un esempio pratico. È possibile calcolare il pH di una soluzione di idrogeno carbonato di sodio con l’utilizzo delle equazioni appropriate e dei valori di pKa noti. Questo permette di ottenere una stima accurata del pH della soluzione e di comprendere meglio il comportamento del composto in soluzione.

In generale, il calcolo del pH dei sali anfiprotici è un argomento complesso che richiede un’attenta valutazione delle equazioni e dei valori coinvolti. Tuttavia, seguendo i passaggi corretti e sfruttando le formule a disposizione, è possibile ottenere valori accurati che consentono di comprendere meglio il comportamento di tali composti in soluzione.

Struttura molecolare del benzene: risonanza

La e la struttura molecolare del benzene

La disputa sulla struttura molecolare del benzene ha avuto inizio nello stesso anno della sua scoperta da parte di Faraday nel 1825. Fin dall’inizio, è stato evidente che il benzene dovesse contenere a causa dei siti di insaturazione presenti nella molecola. Solo nel 1931, Hückel ha presentato uno studio basato sulla , che riusciva a giustificare le caratteristiche particolari del composto. Inizialmente si credeva che il benzene fosse in realtà un ,3,5 cicloesatriene, ma tale struttura avrebbe dovuto mostrare la tipica reattività dei composti insaturi. Tuttavia, è emerso che il benzene subisce poche reazioni, che procedono lentamente e spesso richiedono calore e la presenza di catalizzatori.

Calore di idrogenazione e energia di risonanza

Il calore di idrogenazione del benzene è risultato essere di gran lunga inferiore rispetto a quello che ci si sarebbe aspettato se il benzene avesse 3 doppi legami alternati e localizzati. Ciò ha suggerito che la differenza di stabilità fosse dovuta a una diversa distribuzione di energia. Il benzene, con sei elettroni π delocalizzati, risulta essere più stabile dell’ipotetico cicloesatriene con sei elettroni π localizzati, dimostrando un’elevata energia di risonanza.

Energia dei legami e orbitali molecolari

La del benzene è minore della lunghezza di un legame singolo carbonio-carbonio, ma leggermente più lunga della lunghezza di un doppio legame carbonio-carbonio, implicando che tutti i legami nel benzene sono equivalenti tra loro. Il benzene contiene 12 nuclei e 42 elettroni, e la risoluzione dell’equazione di Schrödinger risulterebbe complessa. Tuttavia, poiché il sistema π è ortogonale rispetto al sistema σ, è possibile studiarlo da un punto di vista matematico indipendentemente dal sistema σ.

La stabilità del benzene

L’energia di risonanza, conosciuta anche come energia di delocalizzazione, rappresenta la differenza di energia tra la molecola coniugata reale e il suo ipotetico analogo non coniugato. Inoltre, il benzene presenta un insieme di orbitale molecolare π che contribuiscono alla sua stabilità. β rappresenta l’integrale di risonanza ed è un numero negativo, il che significa che maggiore è il valore di β, più stabile è il sistema.

Orbitali e simmetria nel benzene

Gli orbitali molecolari dei sistemi π etilenici possono essere combinati per formare il sistema π del benzene, risultando in un insieme di orbitali di simmetria esagonale. Questa particolare disposizione conferisce al benzene la sua stabilità unica e le proprietà uniche che lo caratterizzano.

Concludendo, la struttura molecolare del benzene e la sua risonanza rappresentano un interessante argomento di studio che porta alla comprensione di una delle molecole più importanti e intriganti nella chimica organica.

Legame e quantomeccanica: energia

Legame e quantomeccanica: energia

Il legame rappresenta l’associazione tra due specifici atomi presenti in una molecola. Ad esempio, gli atomi H e Cl in HCl o gli atomi e H in NH3. Il legame nella molecola HCl deriva dall’accoppiamento di due elettroni, uno proveniente dall’atomo di idrogeno e l’altro dall’atomo di cloro. Altre molecole presentano doppietti elettronici condivisi, come nel caso di O2 e N2, in cui esistono rispettivamente legami doppi e tripli. Gli elettroni coinvolti nel legame possono provenire da uno solo dei due atomi, configurando un legame dativo.

Questi legami, che possono essere singoli o multipli, rientrano nella categoria dei legami covalenti e possono essere distinti in legami covalenti a carattere non polare e legami covalenti a carattere polare. In una molecola biatomica omonucleare, i doppietti elettronici devono essere equamente distribuiti tra i due nuclei, caratterizzando un sistema non polare. Al contrario, in una molecola biatomica con nuclei diversi, si sviluppa una polarità intrinseca.

La trattazione quantomeccanica dei legami chimici comporta due principali approcci: il metodo del legame di valenza (VB) e la teoria degli (MO). Il primo metodo cerca di confermare i concetti esposti da un punto di vista quantomeccanico. Ad esempio, considerando un sistema composto da due atomi di idrogeno, la che rappresenta tale sistema è determinata dalla funzione d’onda di ciascun atomo, e l’energia correlata al sistema è calcolata in base a queste funzioni d’onda. Quando i due atomi di idrogeno si avvicinano per formare un legame, si verifica una diminuzione dell’energia del sistema, configurando l’.

Tuttavia, l’approccio teorico necessita di ulteriori miglioramenti per correggere eventuali errori contenuti nella funzione d’onda. Ad esempio, l’energia calcolata differisce dalla curva reale per la molecola di H2, indicando la necessità di perfezionare i risultati teorici.

In questa trattazione quantomeccanica, si evidenziano i fondamenti teorici dei legami chimici e le implicazioni della meccanica quantistica nella comprensione di tali fenomeni.La natura dell’elettrone e la molecola di idrogeno

Secondo la meccanica ondulatoria, gli elettroni non possono essere associati a un nucleo piuttosto che a un altro e non possono essere localizzati. La meccanica ondulatoria fornisce la probabilità di trovare l’elettrone in un dato posto. Pertanto, l’uso di ψ come funzione d’onda approssimata non trova maggiore giustificazione di quello di ψ2.

La funzione d’onda ψ2 può essere rappresentata come ψA(2)ψB(1). Se entrambe le funzioni hanno la stessa probabilità di essere quella giusta, si può fare uso di entrambe, ovvero ψcov = (ψ1 + ψ2). Utilizzando questa assunzione e calcolando l’energia del sistema al variare del raggio internucleare si ottiene una curva che meglio approssima quella reale.

Considerando un atomo polielettronico, si usano le funzioni d’onda idrogenoidi, riconoscendo che gli elettroni si schermano in vario grado dalla carica nucleare. Nella molecola di idrogeno, questo può essere fatto utilizzando un numero Z* al posto di Z = 1 per la carica nucleare efficace. Con questa correzione, calcolando le energie in funzione della distanza internucleare, si ottiene una curva che si avvicina di molto a quella reale.

Un ulteriore miglioramento può essere apportato introducendo il concetto di risonanza. Ogni funzione d’onda del tipo ψcov = (ψ1 + ψ2), anche se modifichiamo le forme esatte di ψA e ψB, stabilisce sempre che è considerata la possibilità che gli elettroni siano separatamente associati ai due rispettivi atomi.

Tuttavia, esiste una probabilità definita che i due elettroni appartengano occasionalmente allo stesso orbitale atomico. Le funzioni d’onda che esprimono questo stato saranno ψA(1)ψA(2) e ψB(1)ψB(2) e, dato che ψA e ψB sono identiche nella forma, non vi è alcuna ragione di preferire l’una rispetto all’altra. Perciò si utilizzano entrambe: ψion = ψA(1)ψA(2) + ψB(1)ψB(2).

Le equazioni (4) e (5) sono combinate nel modo seguente: ψ= ( 1 – 2λ + 2λ2)-1/2[(1 – λ) ψcov + λ ψion. λ è un coefficiente di mescolamento che indica quanto la funzione d’onda ionica si mescola con quella covalente. Introducendo queste ulteriori assunzioni si ottiene una curva che sempre più si avvicina a quella reale.

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