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Tensioattivi non ionici

Tensioattivi non ionici: caratteristiche e classificazione

I tensioattivi non ionici sono caratterizzati dalla mancanza di cariche quando vengono sciolti in acqua. La parte idrofila della molecola, che agisce come solubilizzante, è comunemente rappresentata dall’ossigeno dell’, il quale mostra affinità verso l’acqua attraverso la formazione di ponti di idrogeno.

L’ossido di etilene, il più semplice composto eterociclico contenente ossigeno, è il principale costituente dei tensioattivi non ionici. Questa classe include anche gli degli zuccheri e gli alchilo-ammidi di acidi grassi. In genere, il contenuto di ossido di etilene nella molecola del tensioattivo varia dal 50% all’80% in peso per ottenere prodotti solubili in acqua a temperatura ambiente con buone proprietà tensioattive.

La reazione di etossilazione con sostanze contenenti atomi di idrogeno attivi avviene in presenza di basi, a temperature comprese tra 100 e 200 °C. Questa reazione comporta l’attacco del nucleofilo all’ossido di etilene, dando luogo alla sostituzione nucleofila SN2. In seguito, l’anione ossietilenico può proseguire la reazione con RXH, generando prodotti a diverso grado di etossilazione a seconda dei composti di partenza e delle condizioni di reazione.

I tensioattivi non ionici vengono suddivisi in quattro sottoclassi, che si riferiscono a condensati con ossido di etilene differenziati in base al tipo di legame con la parte idrofoba.

Etossilati eterei

Questa sottoclasse comprende i tensioattivi non ionici in cui la parte idrofila poliossietilenica della molecola è legata alla parte idrofoba con un legame ossigeno etereo. Essi rappresentano il tipo quantitativamente più importante dei tensioattivi non ionici e possono essere distinti in diversi tipi in base alla natura della parte idrofoba R.

1) Alchilfenoli etossilati: Questi composti presentano una catena alchilica lineare o ramificata nel campo C8-C12, ottenuti per reazione tra alchilfenolo e ossido di etilene. Le proprietà fisiche e tensioattive variano a seconda del contenuto di ossido di etilene nella molecola, influenzando la solubilità in acqua e in solventi non polari, così come le caratteristiche tensioattive.

2) Alcoli etossilati: Anche nel caso di alcoli etossilati, i diversi tipi di alcoli di partenza hanno un modesto influsso sulle proprietà fisiche e tensioattive.

3) Copolimeri di polialchilenossidi: Si tratta in genere di condensati di ossido di propilene e ossido di etilene con un composto a idrogeno attivo come alcoli mono-, di- e trifunzionali. I copolimeri possono essere a blocchi, misti o intermedi tra i due.

Etossilati esterei

Questa sottoclasse comprende i composti in cui la parte idrofila della molecola è legata alla parte idrofoba attraverso un gruppo carbossilico con la formazione di un estere.

Acidi etossilati

La preparazione di acidi etossilati avviene a partire dagli acidi grassi, trattandoli con ossido di etilene in presenza di basi o con polietilenglicole in presenza di acidi. Le proprietà di tali composti sono tipiche dei non ionici e la solubilità in acqua è buona per un contenuto di almeno il 60% di ossido di etilene.

Esteri di polialcoli etossilati

Questi prodotti sono ottenuti a partire da esteri di un polialcol come il glicerolo e di acidi grassi tramite una condensazione con ossido di etilene in presenza di un catalizzatore basico.

In conclusione, i tensioattivi non ionici mostrano una grande varietà di strutture e proprietà, determinate dalle diverse classi e sottoclassi in cui possono essere suddivisi, offrendo una vasta gamma di in numerosi settori industriali.Gli etossilati sono composti non ionici caratterizzati dalla presenza di gruppi ammidici, classificabili in due categorie principali: gli alchiloammidi e le ammidi etossilate. La solubilità in acqua di queste sostanze dipende dal tipo di estere e dal contenuto di ossido di etilene. Le etanolammidi, ad esempio, vengono ottenute a partire da acidi grassi o dai loro esteri di alcoli bassobollenti, tramite reazione con . Questi composti possiedono proprietà tensioattive che consentono di stabilizzare la schiuma di tensioattivi anionici e non ionici e hanno funzioni di imbibimento, emulsionamento e dispersione dei saponi calcarei. Le ammidi etossilate, invece, si ottengono per addizione di ossido di etilene alle mono- o alle dietanolammidi e presentano una maggiore solubilità rispetto alle etanolammidi.

Le etossilate appartengono alla classe degli etossilati amminici e possono essere considerate cationiche per il basso contenuto di ossido di etilene. Tuttavia, con l’aumentare di questo componente, acquisiscono progressivamente le proprietà dei non ionici. La produzione avviene in due fasi per addizione di 2 o 1 mole di ossido di etilene ad ammine primarie o secondarie, rispettivamente. La reazione di addizione avviene in presenza di catalizzatori alcalini e dà luogo a miscele di ammine primarie, secondarie e terziarie. L’efficienza di queste sostanze è legata alla loro capacità di progressivamente acquisire proprietà dei composti non ionici all’aumentare del contenuto di ossido di etilene.

Nomenclatura di alcani e cicloalcani

Nomenclatura degli Alcani e Cicloalcani: Regole e Esempi

La nomenclatura di alcani lineari, ramificati e cicloalcani mono e disostituiti è spiegata con esempi, seguendo le regole della IUPAC per gli idrocarburi aciclici saturi ramificati e non ramificati con formula CnH2n+2.

I primi quattro termini della serie omologa hanno nomi convenzionali come , etano, propano e butano. I termini successivi sono definiti mediante prefissi che indicano il numero di atomi di carbonio seguito dalla desinenza “ano”. Ad esempio, l’esano è uno degli alcani con sei atomi di carbonio, che può essere lineare o ramificato.

Dagli alcani, per sottrazione di un atomo di idrogeno da un atomo di carbonio terminale, si ottiene un radicale alchilico. Il nome del radicale deriva dal nome dell’idrocarburo corrispondente per sostituzione della desinenza “ano” con “ile”. Ad esempio, il gruppo CH3- è detto metile, mentre il gruppo CH3-CH2- è detto etile.

Le regole per attribuire il nome agli alcani possono essere riassunte come segue: Trovare la più lunga catena continua di atomi di carbonio, identificare i gruppi sostituenti legati alla catena principale, dare il nome a ciascun gruppo sostituente e numerare la catena principale in modo da usare i numeri più piccoli possibili per gli atomi di carbonio ai quali sono attaccati i gruppi sostituenti.

La nomenclatura dei cicloalcani non sostituiti è semplice: si mette il prefisso “ciclo” prima del nome dell’alcano con il corrispondente numero di atomi di carbonio (ciclopentano, cicloesano, ecc.). Per un cicloalcano monosostituito, l’anello fornisce il nome della radice mentre il gruppo sostituente è denominato in modo usuale.

Se due sostituenti diversi sono presenti sull’anello, questi sono elencati in ordine alfabetico, e al carbonio a cui è attaccato il primo sostituente è assegnato il numero 1. La numerazione dei carboni dell’anello continua poi in quella direzione che porta il secondo sostituente ad avere la più bassa numerazione possibile.

Nei cicloalcani bisostituiti si verifica l’ a causa della struttura ciclica della molecola che non consente la libera rotazione intorno al legame semplice carbonio-carbonio che si verifica negli alcani. Se il sostituente alchilico è grande o complesso, l’anello può essere considerato come il gruppo sostituente dell’alcano.

In , la nomenclatura di alcani e cicloalcani segue regole precise che permettono di attribuire un nome univoco a ogni composto, cosa fondamentale in .

Nomenclatura per composti policiclici e sistemi spiranici

I composti policiclici sono molecole che presentano due o più anelli di carbonio in comune. La loro nomenclatura segue un sistema specifico basato sul numero di atomi di carbonio e sul numero di anelli presenti nella struttura. Gli stessi principi si applicano anche ai sistemi spiranici, dove due anelli sono collegati da un singolo atomo di carbonio, chiamato “spiro-atomo”.

I composti policiclici prendono il nome dalla controparte a catena aperta con lo stesso numero di atomi di carbonio, utilizzando i prefissi biciclo-, triciclo- per indicare il numero degli anelli. I punti di fusione sono indicati specificando il numero di atomi di carbonio presenti in ciascun ponte, noti come “teste di ponte” (bridgehead). I ponti sono rappresentati tra parentesi quadre in ordine di lunghezza decrescente.

Per esempio, il composto biciclo[1.1.0]butano è così nominato a causa della sua struttura biciclica con un ponte formato da un singolo atomo di carbonio. Allo stesso modo, il composto biciclo[3.2.1]ottano è caratterizzato da tre anelli e un ponte con due atomi di carbonio.

Per i sistemi spiranici, i nomi sono derivati dall’idrocarburo alifatico corrispondente, con l’aggiunta del prefisso “spiro-” seguito dal numero di atomi di carbonio legati allo spiro-atomo di ciascun anello. La numerazione comincia da un atomo di carbonio appartenente all’anello più piccolo e contiguo allo spiro-atomo.

Ad esempio, consideriamo il composto spiro[3.5]nonano, composto da due anelli, di cui uno con tre atomi di carbonio e l’altro con cinque, uniti da un atomo di carbonio comune. La numerazione parte dall’atomo di carbonio dell’anello più piccolo e contiguo allo spiro-atomo.

In conclusione, la nomenclatura dei composti policiclici e dei sistemi spiranici segue regole ben definite che consentono di identificare in modo accurato la struttura molecolare di queste particolari classi di composti organici.

Conduttimetria e metodi di misura della conduttività

Misura della elettrica: conduttimetria e metodi di valutazione

La conduttimetria rappresenta una tecnica analitica elettrochimica volta a misurare la conducibilità degli per monitorare l’evoluzione di una reazione. Gli elettroliti sono di tipo conduttore e sono responsabili del passaggio di corrente elettrica grazie alla libera mobilità degli ioni, la cui resistenza può essere calcolata utilizzando la formula generale dei conduttori: R = ρ l/s.

Dove R rappresenta la resistenza espressa in Ω (ohm); ρ indica la resistività in Ω m (ohm · metro); s rappresenta la sezione di due elettrodi identici piani esposti a una distanza l in m. È possibile introdurre i reciproci di R e ρ come conduttanza C e conduttività γ, e quindi ottenere il valore della conduttanza C dalla relazione: C = γ s/l.

Conduttività ionica equivalente

L’attitudine dei singoli ioni alla conduzione può essere espressa tramite la conduttività ionica equivalente Λ, definita come: Λ = γ/η, dove η rappresenta la concentrazione espressa in equivalenti per mL. In caso di utilizzo della (equivalenti/L) per esprimere la concentrazione, la formula diventa: Λ = 1000 γ/ η’. La conducibilità specifica di una soluzione è influenzata sia dalla concentrazione delle specie ioniche presenti, sia dalla facilità di movimento degli ioni nella soluzione.

Valutazione della conducibilità elettrica

La conducibilità specifica χ di una soluzione contenente i specie ioniche è data dalla formula: χ = Σ ηiΛi/ 1000. Tuttavia, i valori della conduttività ionica equivalente non sono costanti, tranne in soluzioni molto diluite, e possono essere approssimati solo in soluzioni concentrate. Le misure di conduttività sono ampiamente impiegate per determinare il punto finale di diverse tipologie di titolazioni volumetriche, sfruttando la variazione della concentrazione globale delle specie ioniche. Le misurazioni vengono effettuate con il ponte di Kohlrausch, operante in corrente alternata, che consente di ottenere i valori di conduttanza C.

Utilizzo e

La conduttimetria fornisce informazioni sul contenuto ionico totale delle soluzioni acquose, consentendo di comprendere le proprietà elettrolitiche degli ioni, come diffusione, trasporto, mobilità e migrazione.

La resistenza R di un certo volume di soluzione è la grandezza sperimentalmente accessibile alla determinazione, da cui è possibile ottenere i valori di conduttanza C. Una volta equilibrato il ponte, è possibile risalire alla conduttanza C, essendo C = 1/ Rx. La conduttimetria ha, dunque, un ruolo fondamentale nell’ambito della analitica, contribuendo all’identificazione delle proprietà elettrolitiche di una soluzione e all’individuazione del punto finale di diverse tipologie di titolazioni volumetriche.

Paracoro. Esercizi svolti

e paracoro: definizioni e relazioni

La tensione superficiale di un liquido è strettamente legata alle forze di coesione tra le sue molecole, in particolare riguardo alla superficie che lo separa dalla fase gassosa. Questo stato di tensione, definito come la tensione superficiale, è stato oggetto di studio approfondito nel 1924 da Sugden, il quale propose una relazione empirica tra tensione superficiale e densità del liquido, mediante una costante empirica chiamata paracoro.

La relazione proposta da Sudgen è rappresentata dall’equazione empirica PM γ1/4 / d = P, in cui PM rappresenta il peso di una mole di liquido, γ la tensione superficiale del liquido e d la densità del liquido alla stessa temperatura. Il risultato di questo rapporto è la costante chiamata paracoro.

Il paracoro di una sostanza può essere definito come il volume occupato da una mole di detta sostanza allo stato liquido, corretto dalle forze di coesione superficiale mediante il coefficiente di tensione superficiale γ. Questa definizione è stata determinata sulla base dell’equazione di Sudgen, utilizzata per lo studio delle serie omologhe di composti organici.

Le considerazioni di Sudgen portarono alla conclusione che il paracoro delle sostanze è una grandezza additiva, ovvero il paracoro di una sostanza è dato dalla somma di tutti gli atomi che compongono la molecola, più la somma dei paracori dei fattori strutturali della molecola, come ad esempio i doppi e i tripli legami e la presenza di anelli di diversa tipologia.

I dati sperimentali dei paracori di alcuni atomi e di elementi strutturali sono riferiti nelle unità di misura del S.I., come riportato nella tabella seguente:

Atomo | Paracoro | Elemento strutturale | Paracoro
— | — | — | —
Carbonio | 8.5 ∙ 10-7 | Legame semplice | 0.00
Idrogeno | 30.4 ∙ 10-7 | Legame doppio | 41.2 ∙ 10-7
Ossigeno | 35.6 ∙ 10-7 | Legame triplo | 82.9 ∙ 10-7
Azoto | 22.2 ∙ 10-7 | Anello triatomico | 29.7 ∙ 10-7
| 86.2 ∙ 10-7 | Anello tetratomico | 20.6 ∙ 10-7
| 67.0 ∙ 10-7 | Anello pentatomico | 20.6 ∙ 10-7
| 45.7 ∙ 10-7 | Anello esatomico | 10.8 ∙ 10-7

Infine, sono proposti alcuni esercizi di calcolo del paracoro per diverse sostanze, basati sulle formule elettroniche e le possibili risonanze tra le strutture delle molecole coinvolte.

Conclusioni

Il concetto di paracoro e la sua relazione con la tensione superficiale rappresentano una parte significativa degli studi nel campo della chimica fisica e della chimica dei . La comprensione di tali concetti è fondamentale per comprendere le proprietà fisiche dei liquidi e dei solidi e per poter effettuare calcoli e previsioni legati ai comportamenti delle sostanze in vari contesti.

Curve di riscaldamento e di raffreddamento

Curve di riscaldamento e di raffreddamento: caratteristiche e interpretazione

Le curve di riscaldamento e di raffreddamento sono rappresentazioni grafiche utilizzate per osservare i passaggi di stato delle sostanze e identificare le temperature di fusione e di ebollizione.

Durante il riscaldamento di una sostanza allo stato solido a pressione costante, si nota un aumento rapido della temperatura fino a quando essa rimane costante nonostante il continuo apporto di calore. Questo segna il passaggio della sostanza solida allo stato liquido, noto come fusione, e la temperatura a cui avviene è chiamata temperatura di fusione, un attributo distintivo di ciascuna sostanza. Il calore necessario per la fusione di una quantità di sostanza è definito come di fusione, con unità di misura cal/mol o J/mol.

Dopo il passaggio completo al liquido, la temperatura aumenta nuovamente fino a stabilizzarsi, segnando l’ebollizione della sostanza a una temperatura costante. La quantità di calore richiesta per la transizione dal liquido al vapore è chiamata calore latente di evaporazione, con corrispondente calore latente molare di evaporazione.

Le curve di riscaldamento rappresentano graficamente questi passaggi di stato, evidenziando la relazione tra la temperatura della sostanza e il calore fornito. Mentre tali curve mostrano un andamento orizzontale durante i cambiamenti di stato, sottolineano anche l’importanza della natura della sostanza e delle condizioni di riscaldamento.

Il processo contrario di raffreddamento è illustrato dalle curve di raffreddamento, che mostrano il rilascio di calore durante il passaggio da vapore a liquido e da liquido a solido. In alcuni casi, a determinate pressioni, la sostanza solida può passare direttamente allo stato gassoso senza fondere, in un fenomeno noto come . Il calore latente di sublimazione è la quantità di calore richiesta per questo passaggio di stato.

Il brinamento rappresenta il processo contrario, con il vapore che si trasforma direttamente in solido a una temperatura specifica, con il relativo calore latente di brinamento.

In conclusione, le curve di riscaldamento e di raffreddamento offrono una rappresentazione visiva utile per comprendere i processi di cambiamento di stato delle sostanze e le temperature associate, fornendo così informazioni fondamentali nell’ambito della chimica fisica.

Solventi aprotici: reazioni

Solventi aprotici e le loro reazioni molecolari

I solventi aprotici sono una categoria speciale di solventi con una struttura molecolare priva di atomi di idrogeno dissociabili, come l’H+. Questi solventi non seguono lo schema di Brønsted-Lowry e danno luogo a un equilibrio di autoionizzazione del tipo AB ⇄ A+ + B.

Tuttavia, introducendo determinate sostanze nel solvente, è possibile alterare questo equilibrio. Le sostanze che aumentano l’attività della specie carica positivamente, A+, sono denominate acidi, mentre quelle che aumentano l’attività della specie carica negativamente, B, sono chiamate basi.

In questo articolo, esploreremo le proprietà di alcuni solventi aprotici e le reazioni molecolari che essi presentano.

Biossido di

Il è un esempio di solvente aprotico. La sua struttura molecolare non planare e la natura polare sono riflesse nella sua costante dielettrica (ε = 15.4). Questo solvente liquido mostra la reazione di ionizzazione:

2 SO2 ⇄ SO2+ + SO32-

Nel biossido di zolfo liquido, le reazioni tra un alogenuro di tionile, SOX2 (dove X = alogeno), e i solfiti dei metalli alcalini, M2SO3 (dove M = metallo alcalino), sono considerate vere e proprie reazioni di neutralizzazione:

Cs2SO3 + SOCl2 ⇄ 2 CsCl + 2 SO2

Le sostanze in grado di aumentare l’attività dell’ione SO2+ o di un composto che lo contiene (SOX2) possono essere definite acidi, come i pentalogenuri degli elementi del Gruppo 15, capaci di reagire con il biossido di zolfo. D’altra parte, le sostanze che manifestano comportamento basico sono in grado di reagire con , come l’ione acetato CH3COO e tiocianato SCN.

Alcuni sali possono reagire con il solvente SO2 causandone la scissione in SO2+ e SO32- (). Si osserva che i sali esistono in forma associata a coppie di ioni.

Un altro comportamento evidenziato è quello anfotero dei solfiti, come il cloruro di alluminio AlCl3, che è solubile in biossido di zolfo liquido e reagisce con un solfito per dare un composto insolubile, il solfito di alluminio.

Tetrossido di Diazoto

Il tetrossido di diazoto, detto anche ipoazotide, è un altro esempio di solvente aprotico. Esso si trova in equilibrio con la specie monomera biossido di azoto.

N2O4 ⇄ 2 NO2

In fase liquida e gassosa, questo solvente mostra un’equilibrio significativamente influenzato dalla temperatura.

In conclusione, i solventi aprotici e le loro reazioni molecolari presentano un comportamento unico che li rende di particolare interesse nello studio della . La comprensione delle proprietà e delle interazioni di questi solventi è importante per numerosi campi della ricerca scientifica e dell’applicazione pratica.Le proprietà dell’ipoazotide

L’ipoazotide ha una temperatura di fusione di -12.3 °C e bolle a 21.3 °C. Le caratteristiche apolari della molecola e la bassa costante dielettrica (2.42 a 18°C), fanno sì che i composti ionici siano scarsamente solubili nell’ipoazotide, mentre i composti organici sono discretamente solubili. L’ipoazotide dà luogo anche ad un equilibrio di autoionizzazione, simile a quello del biossido di zolfo e dei solventi anfiprotici:

N2O4 ⇄ NO+ + NO3-

Sulla base di questo equilibrio, le sostanze che liberano ioni nitrosile NO+ sono considerate acide e quelle che liberano ioni nitrato NO3- sono considerate basi. In questo senso, gli alogenuri di nitrosile NOX sono acidi, mentre i nitrati sono basi. La reazione che avviene in ipoazotide liquida tra cloruro di nitrosile e nitrato di argento solido è da considerarsi una reazione di neutralizzazione:

NOCl + AgNO3 ⇄ AgCl(s) + N2O4

Molti sali di formula generale MX danno reazioni solvolitiche con ipoazotide secondo il seguente schema:

MX (s) + N2O4 ⇄ MNO3(s) + NOX

Le reazioni acido-base nei solventi biossido di zolfo e ipoazotide possono essere interpretate in termini di trasferimento dello ione ossido O2- da una specie all’altra. Le basi sono le sostanze capaci di cedere uno ione ossido, mentre gli acidi sono le sostanze capaci di accettarlo, e in seguito a tale trasferimento la base e l’acido si trasformano rispettivamente nell’acido e nella base coniugati.

Inoltre, una delle reazioni che avvengono in ipoazotide liquida coinvolge i trialogenuri degli elementi del Gruppo 15 di formula generale AX3 (A = P, As, Sb e Bi; X = F, Cl, Br, I). Questi solventi danno luogo alla reazione di autoionizzazione del tipo generale:

2 AX3 ⇄ AX2+ + AX4-

Le sostanze acide sono quelle capaci di aumentare l’attività della specie positiva AX2+, mentre quelle basiche fanno aumentare l’attività di AX4-. L’acido e la base più forti sono rispettivamente AX2+ e AX4-. Essi reagiscono tra loro secondo la reazione di neutralizzazione:
AX2+ + AX4- ⇄ 2 AX3

Questa reazione acido-base implica il trasferimento di uno ione alogenuro X- dalla specie AX4- alla specie AX2+. La definizione di acidi e basi di questi solventi può essere estesa in questo senso: le basi sono le sostanze capaci di cedere uno ione X- trasformandosi in base coniugata. La reazione di neutralizzazione è rappresentata secondo il seguente schema:
AX4- + AX2+ ⇄ AxX3

Gomma naturale e gomme sintetiche- Chimica

Gomma naturale e gomme sintetiche: un approfondimento chimico

La gomma è costituita da lunghe catene polimeriche e può essere di origine naturale o sintetica. La gomma naturale proviene dalla Hevea Brasiliensis, una pianta dell’Amazzonia, ed è stata utilizzata sin dall’antichità. Le sue e proprietà furono descritte per la prima volta nel 1736 da Charles-Marie de La Condamine, suscitando interesse scientifico.

Tuttavia, la gomma naturale presentava svantaggi come la dipendenza delle caratteristiche meccaniche dalla temperatura. Nel 1839, la scoperta della da parte di Charles Goodyear portò a un processo che migliorò significativamente le proprietà meccaniche ed elastiche della gomma naturale. Questa scoperta rimane ancora fondamentale nella lavorazione della gomma.

Le gomme sintetiche, invece, derivano dalla polimerizzazione dell’ e di altre sostanze. La preparazione della gomma sintetica avviene attraverso la copolimerizzazione di butadiene con altre sostanze, come il stirene e l’acrilonitrile. Questi processi consentono di ottenere diverse tipologie di gomma sintetica come il Buna S, il Buna N, la gomma butile e il , ciascuno con caratteristiche specifiche e applicazioni differenziate.

Questi polimeri, naturali e sintetici, presentano caratteristiche meccaniche ed elastiche scadenti, ma la vulcanizzazione rappresenta un processo chiave per migliorarne le proprietà. Sia la gomma naturale che quelle sintetiche allo stato grezzo non sono impiegate direttamente, ma la modifica della loro struttura permette di ottenere una struttura tridimensionale più stabile, conservando l’elasticità in un ampio range di condizioni.

Inoltre, la gomma sintetica viene ottenuta polimerizzando l’isoprene ad alte temperature e in presenza di opportuni , dando vita a prodotti con caratteristiche specifiche e dal vasto campo di utilizzo. La gomma naturale e le sue controparti sintetiche rappresentano dunque elementi di fondamentale importanza in diversi settori industriali e commerciali, grazie alle loro peculiari proprietà chimiche, fisiche ed elastiche.

Bomba calorimetrica di Mahler

Bomba calorimetrica di Mahler: Strumento per la determinazione del potere calorifico

La bomba calorimetrica di Mahler è un calorimetro utilizzato per valutare il potere calorifico di solidi e liquidi, in particolare per misurare il flusso di calore durante trasformazioni come i calori specifici, calori latenti di fusione ed ebollizione e calori di reazione. Tra i diversi tipi di calorimetri, la bomba calorimetrica di Mahler è nota per la sua notevole precisione nei risultati ed è comunemente impiegata per la determinazione del potere calorifico superiore di gas combustibili come il .

Determinazione del potere calorifico superiore

Il potere calorifico superiore, che esprime la quantità di calore disponibile per effetto della completa a pressione costante della massa unitaria, viene calcolato attraverso la formula Qs = Δt(A+a)/p, dove Δt rappresenta l’innalzamento termico, A è la massa di acqua contenuta nel calorimetro, a è l’equivalente in acqua del calorimetro e p è il peso del combustibile. Questa metodologia è comunemente utilizzata per la determinazione del potere calorifico superiore di gas combustibili come il metano.

Componenti della bomba calorimetrica

La bomba calorimetrica è costituita da un recipiente in acciaio inossidabile con capacità di 650 cm3, dotato di coperchio a vite con guarnizioni di piombo per garantire la tenuta. Il coperchio presenta due , uno isolato con un piccolo anello portacrogiolo e l’altro fisso al coperchio, utilizzati per l’immissione di ossigeno. La bomba è dotata di condotti per l’ingresso e l’uscita del gas, entrambi regolati da valvole.

Funzionamento e calcolo del calore di combustione

Il collegamento tra gli elettrodi avviene tramite una spiralina di ferro che provoca l’accensione del combustibile. Il vaso calorimetrico, realizzato in ottone e isolato per ridurre gli scambi di calore con l’ambiente esterno, contiene l’acqua necessaria per la misurazione. Durante l’esperimento, la variazione di temperatura è letta tramite un termometro di Beckmann. Il calore di combustione può essere calcolato utilizzando una formula che tiene conto di variabili come il peso della sostanza, il numero di millimoli di acido nitrico formatosi e la temperatura massima letta nel periodo principale.

Conclusioni

La bomba calorimetrica di Mahler offre notevole precisione nei risultati e viene ampiamente impiegata per la determinazione del potere calorifico di diversi . Attraverso il suo utilizzo è possibile ottenere dati precisi e affidabili sul potere calorifico di solidi e liquidi, fornendo importanti informazioni in ambito chimico e industriale.

Cuoio e sua cura

Cura del Cuoio: Composizione e Consigli per la Manutenzione

Il cuoio, grazie alla sua struttura particolare costituita da un intreccio tridimensionale di , possiede eccellenti proprietà termoisolanti, rendendolo un materiale prezioso specialmente durante la stagione invernale. Questo materiale deriva dalla pelle di animali come bovini, suini, ovini e caprini, che dopo opportuni trattamenti chimici, fisici e meccanici, diventa un materiale imputrescibile adatto per la produzione di calzature, pelletteria, accessori per auto, e molto altro ancora.

Composizione

La pelle bovina, ad esempio, è composta in media da:
– 64% di acqua
– 33% di proteine
– 2% di grassi
– 0.5% di sostanze minerali
– 0.5% di altre sostanze.

Questa particolare struttura del cuoio rende essenziale una corretta manutenzione per preservarne le caratteristiche nel tempo.

Consigli per la Cura

Per mantenere l’integrità del cuoio e preservarne le sue qualità, è fondamentale adottare delle pratiche di manutenzione. Prima di tutto, è importante conservare gli oggetti in cuoio in luogo asciutto e arioso, evitando l’uso di sacchetti di plastica impermeabili all’aria, che potrebbero favorire la formazione di muffa. Inoltre, è consigliabile evitare che gli oggetti in cuoio vengano esposti a fonti di calore eccessivo, in quanto potrebbero danneggiarsi a causa delle alte temperature.

Prodotti e Tecniche di Manutenzione

Esistono diversi prodotti adatti alla cura del cuoio, come creme, e emulsioni oleose, che possono essere applicati per proteggere e preservare l’aspetto e le caratteristiche del materiale. Tuttavia, è importante prestare attenzione ai prodotti utilizzati e al loro corretto impiego per evitare danni alla superficie.

In caso di macchie o sporco, è consigliabile intervenire con prodotti specifici in base al tipo di cuoio e alla tipologia di macchia. La corretta cura e manutenzione garantirà al cuoio una lunga durata nel tempo e la conservazione delle sue qualità uniche.

Reazioni nucleari: radioattività

nucleari: l’importanza della radioattività

Le reazioni nucleari sono espresse attraverso equazioni che includono i simboli dei nuclei reagenti e prodotti, con i necessari coefficienti di bilanciamento.

La scoperta della radioattività attribuita a Henry Becquerel risale al 1896, dopo aver cercato di comprendere la natura dei , che sembrava fossero collegati alla verde del vetro del tubo in cui venivano prodotti i raggi catodici.

Becquerel verificò se le sostanze fluorescenti naturali emettevano raggi dopo l’esposizione alla luce solare. A tale scopo, impiegò un sale di e notò chiaramente radiazioni provenienti dalla sostanza avvolta in una lastra fotografica, anche in assenza di luce solare.

Successivamente, Marie Curie mostrò che altri due elementi possedevano le stesse proprietà di emettere “raggi naturali”: il polonio e il . Queste radiazioni erano costituite da tre componenti essenziali: le particelle α e β poco penetranti e una radiazione γ molto più penetrante.

Già verso la fine del 1934, Enrico Fermi e il gruppo di giovani ricercatori noti come i “Ragazzi di via Panisperna” effettuarono scoperte fondamentali che portarono alla comprensione della fissione nucleare.

Le reazioni nucleari sono processi in cui uno o più nuclidi sono prodotti dalle collisioni tra due nuclei atomici o tra un nucleo atomico e una particella subatomica.

Esse possono essere classify come esoenergetiche o endoenergetiche. Nel primo caso, la massa del sistema diminuisce e l’energia liberata appare come l’energia cinetica dei prodotti di reazione, mentre le endoenergetiche richiedono l’apporto di energia cinetica ai reagenti.

Il bilancio energetico o tonalità termica Q di una reazione nucleare corrisponde all’energia liberata o assorbita, generalmente misurata in MeV.

Le tecniche usate nello studio delle reazioni nucleari sono notevolmente diverse da quelle utilizzate nelle reazioni chimiche, richiedendo energie molto elevate fornite da particelle o raggi accelerati con macchine specializzate. Poiché la probabilità di interazione tra una particella energetica e un nucleo è in generale bassa, lo studio delle reazioni nucleari è di solito effettuato su un numero assai limitato di eventi individuali, comportando l’uso di diverse grandezze per descrivere la velocità di reazione.

L’errore nelle misure sperimentali

L’importanza dell’errore nelle misure sperimentali

Ogni misura sperimentale risulta inevitabilmente affetta da un margine di errore, che può essere causato da vari fattori, sia accidentali che sistematici, che influenzano l’accuratezza del risultato. Gli strumenti di misura, per quanto sensibili, presentano dei limiti che condizionano il valore finale ottenuto, e va considerato che il valore vero di una grandezza è indefinito, quindi ogni misura rappresenta solamente un’approssimazione del valore vero e si discosta da questo di una quantità definita: l’errore. La teoria della misura affronta questa problematica con metodi statistici che consentono di fornire una stima del valore vero e di esprimere i risultati in termini di probabilità.

Tipologie di errore: assoluto e relativo

L’errore assoluto di una misura è definito come la differenza tra il valore misurato e il valore vero, mentre l’errore relativo è ottenuto tramite il rapporto tra l’errore assoluto e la grandezza misurata. Quando si effettuano diverse misurazioni, è possibile calcolare il , la assoluta e la semidispersione relativa, utili per valutare l’entità degli errori presenti nei dati raccolti.

Considerando un insieme di dati sperimentali relativi a una misurazione, è possibile calcolare il valore medio sommando tutti i valori ottenuti e dividendoli per il numero totale di misurazioni effettuate. Questa procedura, estesa a ogni tipo di misura, fornisce una formula per il calcolo del valore medio.

Valore medio e semidispersione

Per valutare quanto il valore medio si discosti dal valore vero, si utilizza la semidispersione assoluta, che rappresenta la differenza tra il valore massimo e il valore minimo diviso per due. Questo valore fornisce un’indicazione sull’incertezza della misurazione e consente di esprimere il risultato della misura in termini di valore medio più o meno la semidispersione assoluta. Inoltre, è possibile esprimere l’incertezza della misura mediante la semidispersione relativa e la semidispersione relativa percentuale, utili per valutare la precisione della misura rispetto al valore vero. Questi calcoli permettono di ottenere un’idea chiara dell’entità degli errori presenti nei risultati.

In , l’errore nelle misure sperimentali è un elemento cruciale da considerare per valutare l’affidabilità dei risultati e la precisione delle misurazioni effettuate. La corretta valutazione dell’errore consente di ottenere stime realistiche del valore vero e di esprimere in modo accurato l’incertezza associata a una determinata misura.

Con queste nozioni è possibile comprendere come le misure sperimentali siano affette da vari tipi di errori, sia accidentali che sistematici, che influenzano l’accuratezza del risultato. Gli strumenti di misura, per quanto sensibili, presentano dei limiti che condizionano il valore finale ottenuto, e va considerato che il valore vero di una grandezza è indefinito, quindi ogni misura rappresenta solamente un’approssimazione del valore vero e si discosta da questo di una quantità definita: l’errore. La teoria della misura affronta questa problematica con metodi statistici che consentono di fornire una stima del valore vero e di esprimere i risultati in termini di probabilità.

Reazioni di addizione nucleofila

Addizione Nucleofila: Meccanismo e Esempi Pratici

Le di addizione nucleofila avvengono su substrati che presentano , e sono caratteristiche dei sistemi con legami multipli. Durante queste reazioni, il reattivo, ricco di elettroni, induce la localizzazione degli elettroni π del legame multiplo su uno dei due atomi, formando un anione, il quale successivamente si lega a un’entità positiva (generalmente H+ o M+).

I substrati che partecipano a reazioni di addizione nucleofila presentano atomi di carbonio ibridati sp2 e sp, con una polarizzazione degli elettroni π dovuta agli effetti induttivi e mesomerici. Essi possono essere classificati in composti carbonilici ed eterocarbonilici, e composti con legami multipli attivati.

La reattività di queste reazioni è influenzata dagli effetti induttivi dei sostituenti in posizione α al legame multiplo. L’uso di solventi polari aprotici, che aumentano la forza dei anionici, favorisce le reazioni di addizione nucleofila. In generale, durante queste reazioni, si passa da un carbonio ibridato sp2 planare a uno sp3 tetraedrico.

Il nucleofilo si avvicina al carbonio nel piano degli elettroni π (perpendicolare al piano della molecola) e, a causa della polarità del substrato, l’attacco può avvenire sia sopra che sotto il piano molecolare. Quando non è presente un centro di asimmetria nella molecola, l’addizione è ugualmente probabile da entrambi i lati, producendo una miscela racemica.

Quando invece è presente un centro di asimmetria, la formazione di un secondo centro di asimmetria per l’addizione nucleofila è influenzata dalla conformazione del centro preesistente, producendo un solo diastereoisomero e rendendo la reazione stereoselettiva. Questa stereo selettività è spiegata con la .

Nelle reazioni di sostituzione nucleofila intervengono tre fattori fondamentali: formazione di un nuovo legame σ tra il nucleofilo Nu e il carbonio carbonilico, rottura del legame π con formazione di un intermedio alcossido, e protonazione dell’intermedio alcossido con ottenimento di un derivato alcolico.

In base alla reattività del nucleofilo, vi sono due possibilità: i forti nucleofili anionici si addizionano direttamente al carbonio carbonilico per dare un intermedio alcossido, mentre i nucleofili più deboli neutri necessitano che il gruppo C=O sia preventivamente attivato prima del loro attacco. Ciò può essere realizzato usando un acido in qualità di catalizzatore.

Un esempio pratico di sostituzione nucleofila è la reazione tra un alogenuro acilico e un nucleofilo. Durante questa reazione, il nucleofilo attacca il carbonio carbonilico, per poi riformarsi il doppio legame carbonio-ossigeno e distaccarsi dalla molecola lo ione cloruro, con la formazione del prodotto finale accompagnata da HCl.

Queste reazioni costituiscono un importante campo di studio in , e la comprensione del meccanismo e degli esempi pratici permette di applicarle in svariate situazioni.

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