back to top
Home Blog Pagina 308

Acidi poliprotici: esercizi svolti

Esercizi svolti sugli acidi poliprotici

Gli acidi poliprotici sono acidi con almeno due protoni che rilasciano in successione durante reazioni di equilibrio e presentano almeno due costanti di equilibrio. di acidi poliprotici includono l’, l’acido arsenico e l’.

Il

calcolo del e delle concentrazioni delle specie in soluzione

in una soluzione di acido fosforico 0.100 M può essere eseguito considerando le costanti di equilibrio note: Ka1 = 7.5 · 10-3; Ka2 = 6.2 · 10-8; Ka3 = .0 · 10-12.

Partendo dal primo equilibrio di dissociazione, con l’equazione H3PO4 + H2O ⇌ H2PO4 + H3O+, possiamo costruire un I.C.E. chart (Initial Change Equilibrium) per trovare le concentrazioni in equilibrio.

Il secondo equilibrio di dissociazione, H2PO4 + H2O ⇌ HPO42- + H3O+, può essere analizzato con un altro I.C.E. chart tenendo conto delle concentrazioni derivanti dal primo equilibrio.

Infine, considerando la terza dissociazione, HPO42- + H2O ⇌ PO43- + H3O+, è possibile costruire un I.C.E. chart basato sulle concentrazioni ottenute dal secondo equilibrio.

Utilizzando le costanti di equilibrio e le equazioni pertinenti, è possibile calcolare le concentrazioni [H3PO4], [H2PO4], [HPO42-] e [H3O+] per determinare il pH e le concentrazioni di tutte le specie in soluzione.

Questi esercizi sulla risoluzione di equilibri acidi poliprotici forniscono un’utile pratica per comprendere come calcolare pH e concentrazioni di specie in soluzione per acidi che rilasciano più di un protone.Calcolo del pH e delle concentrazioni dei composti chimici in soluzione

Nel primo caso, consideriamo l’equilibrio di dissociazione del composto H3PO4 e costruiamo una tabella di I.C.E. per determinare le concentrazioni all’equilibrio dei reagenti. Applicando l’equazione di equilibrio, otteniamo il valore di z e le concentrazioni degli ioni coinvolti.

Nel secondo caso, la soluzione è ottenuta mescolando H3PO4 e NaH2PO4 e portata a un volume di 1.0 L. Considerando il primo e il secondo equilibrio di dissociazione, determiniamo le concentrazioni delle diverse specie in soluzione. Utilizzando l’equazione di equilibrio, risolviamo le concentrazioni al fine di calcolare il pH della soluzione.

Inoltre, NaH2PO4 è considerato un elettrolita forte e dunque dissociato al 100% in soluzione. Si ottengono le concentrazioni iniziali di Na+ e H2PO4-. Successivamente, si considera l’equilibrio di dissociazione di H3PO4 e si costruisce una tabella di I.C.E. per determinare le concentrazioni all’equilibrio dei reagenti. Si risolve l’equazione di equilibrio e si calcolano le concentrazioni delle specie coinvolte.

Successivamente, si considera il secondo equilibrio di dissociazione del composto H2PO4- e si costruisce una tabella di I.C.E. per determinare le concentrazione all’equilibrio. Si risolve l’equazione di equilibrio e si calcolano le concentrazioni delle specie coinvolte.

Infine, si considera il terzo equilibrio di dissociazione di HPO4- e si costruisce una tabella di I.C.E. per determinare le concentrazione all’equilibrio. Si risolve l’equazione di equilibrio e si calcolano le concentrazioni delle specie coinvolte.

In conclusione, vengono riassunte le concentrazioni delle specie chimiche in soluzione, inclusa la concentrazione di ioni H+ per calcolare il valore del pH. Si ottiene un pH di 2.46.

Assumendo un approccio sistematico e utilizzando le equazioni di equilibrio, è possibile calcolare con precisione il pH e le concentrazioni delle specie chimiche presenti nelle soluzioni chimiche.

Precipitati: formazione

Formazione dei precipitati in Chimica:

I precipitati prendono forma attraverso diversi stadi di sviluppo, partendo dai “” che sono aggregati ionici primari invisibili, su cui si depositano gradualmente altri ioni. Successivamente, si formano piccolissimi che inizialmente sono dispersi nell’ madre, ma crescono progressivamente fino a separarsi dalla soluzione, dando origine ai precipitati. Durante tale processo, può verificarsi una sovrasaturazione, in cui la soluzione diventa più concentrata rispetto alla saturazione. In questo caso, è necessario modificare le condizioni della soluzione, ad esempio attraverso il raffreddamento, affinché la precipitazione avvenga. La solubilità e la sovrasaturazione sono influenzate dallo stato di suddivisione della sostanza, con i cristalli più piccoli che si dissolvono più facilmente di quelli grandi a causa della tendenza dei solidi ad assumere la superficie minima.

Esempio di precipitazione di sali:


Un esempio pratico è la precipitazione del cloruro di piombo (PbCl2) aggiungendo lentamente una soluzione diluita di ioduro di sodio (NaI). In questo processo, si raggiunge il dell’ioduro di piombo (PbI2), ma non si immediatamente la precipitazione a causa della sovrasaturazione. Con la continuazione dell’aggiunta di NaI, si formano piccoli germi cristallini che si ingrossano mediante il deposito di più PbI2, generando un precipitato ben formato di cristalli gialli facilmente filtrabili.

Variazioni nella formazione dei precipitati:


In altri casi, la formazione dei precipitati può dare luogo a particelle piccolissime e irregolari chiamate “micelle”, che rimangono sospese nell’acqua madre come una soluzione colloidale apparentemente omogenea. Tali particelle possono successivamente perdere la loro carica e formare un precipitato di aspetto fioccoso chiamato “gel” o un precipitato dall’aspetto caseoso.

Coprecipitazione e postprecipitazione:


I precipitati di solito non si separano puri, ma sono inquinati da sostanze presenti in soluzione a causa di fenomeni come la coprecipitazione, in cui altre sostanze si uniscono al precipitato durante la sua formazione, e la postprecipitazione, in cui si verifica la precipitazione di un altro composto sulla superficie del precipitato primario. Questi fenomeni possono contribuire alla presenza di impurità nei precipitati, compromettendone la purezza e la cristallinità.

In sintesi, la formazione dei precipitati è un processo complesso influenzato da vari fattori, che può dare luogo a diversi tipi di precipitati con diverse caratteristiche fisiche e chimiche.

Idrossidi anfoteri: solubilità in funzione del pH

Idrossidi anfoteri e la loro solubilità in relazione al

Gli idrossidi di molti metalli hanno una bassa solubilità in soluzioni alcaline, precipitando dall’ambiente basico. Invece, con l’aggiunta di acidi, si ridissolvono, mostrando la loro natura anfotera.

Ad esempio, gli idrossidi dei come , stronzio e bario sono poco solubili e vengono precipitati dalle soluzioni dei corrispondenti in soluzioni alcaline. Tuttavia, con l’aggiunta di acidi, gli idrossidi si ridissolvono più o meno facilmente.

Gli ioni H+ legano gli ioni OH- abbastanza fortemente per formare H2O liberando i cationi che passano in soluzione. Alcuni metalli, inoltre, si ridissolvono non solo in ambiente acido, ma anche in un eccesso di alcali legando a sé ioni OH- con relativa formazione di composti solubili detti idrossimetallati, mostrando la loro natura anfotera.

I metalli come Al3+, Cr3+, Zn2+, Ag+, Pb2+ mostrano questa proprietà.

Variazione del pH

La solubilità degli idrossidi in funzione del pH può essere determinata considerando una soluzione acida contenente un sale di formula generica MX dissociato in ioni M+ e X-. Aggiungendo un idrossido, ad esempio idrossido di sodio, il pH aumenta finché non raggiunge il prodotto di solubilità dell’idrossido MOH.

Quando il prodotto di solubilità viene raggiunto, l’idrossido inizia a precipitare. Tenendo presente che il prodotto ionico dell’ K w = [H+][OH-], è possibile determinare la solubilità dell’idrossido in funzione della concentrazione dello ione H+ e quindi del pH.

Se l’idrossido MOH è anfotero, in soluzione basica si verifica un equilibrio in cui l’idrossido si solubilizza formando un anione complesso.

Diagramma

Rappresentando la solubilità degli idrossidi in funzione del pH si ottiene una curva formata da due parti. La prima parte della curva varia secondo un’espressione relativa al prodotto di solubilità e l’altra parte invece varia secondo l’espressione relativa al rapporto fra la costante di dissociazione e la concentrazione di H+. Il diagramma mostra la variazione della solubilità in funzione del pH, evidenziando la solubilità degli idrossidi in diverse condizioni di pH.

Il pH di precipitazione dei solfuri

Il di precipitazione dei solfuri metallici

Nel determinare il pH di precipitazione dei solfuri metallici si tiene conto della costante di dissociazione dell’acido H2S e del del solfuro. Questo parametro è influenzato da tre equilibri, due legati all’idrolisi del solfuro e uno alla solubilità. I solfuri metallici, ad eccezione di quelli alcalini e alcalino-terrosi, sono poco solubili in acqua e si caratterizzano per la presenza dello ione S2- derivante dall’acido debole H2S.

La precipitazione dei solfuri è impiegata nell’ qualitativa per identificare alcuni metallici. Per esempio, la reazione di precipitazione della soluzione di zinco (II), trattata con ioni solfuro, forma solfuro di zinco ZnS.

La dissociazione del solfuro è regolata dal Kps del sale, mentre i due equilibri di dissociazione dell’acido solfidrico sono determinati dalle costanti Ka1 e Ka2. Questi equilibri influenzano il pH di precipitazione dei solfuri, e da essi è possibile ricavare la concentrazione di H+ a un determinato pH.

Ad esempio, per il solfuro di zinco, che ha un Kps di 10^-20, una concentrazione di ioni zinco di 0.01 M corrisponde a un pH di precipitazione di . In modo analogo, per ottenere una precipitazione completa con una concentrazione finale di zinco pari a 10^-5, si otterrebbe un pH di 2.5. Questi valori indicano i pH a cui avviene la precipitazione dei solfuri metallici, e possono essere calcolati in modo simile per gli altri solfuri.

Il pH di precipitazione dei solfuri può essere calcolato sulla base delle costanti di dissociazione e di solubilità, e rappresenta un dato fondamentale nell’ambito dell’analisi chimica qualitativa.

Solubilità e pH

Solubilità dei Composti e Variazioni del

Per comprendere le condizioni più favorevoli alla dei composti, è cruciale conoscere come varia la loro solubilità in relazione al pH. Calcolare la solubilità di un sale richiede la considerazione di diversi fattori. Ad esempio, prendiamo in esame l’acetato di argento (CH3COOAg), un sale poco solubile in . In presenza di acqua, si verifica l’equilibrio: CH3COOAg (s) ⇄ CH3COO (aq) + Ag+(aq). Questo equilibrio è regolato da Kps che equivale a Kps = [CH3COO ] [Ag+], da cui si ottiene: [CH3COO ] = Kps/ [Ag+] ().

L’acetato di argento, base coniugata dell’, reagisce con l’acqua seguendo l’equilibrio: CH3COO + H2O ⇄ CH3COOH + OH. L’acido acetico è un acido debole e la sua dissociazione è influenzata dalla costante di equilibrio Ka, data da Ka = [H+][ CH3COO]/ [CH3COOH], da cui: [CH3COOH] = [H+][ CH3COO]/ Ka (2).

La solubilità s dell’acetato di argento può essere espressa come: s = [Ag+] = [CH3COO ] + [CH3COOH]. Sostituendo i valori di [CH3COO–  ] derivati da (1) e di [CH3COOH] da (2), si ottiene [Ag+] in funzione di Kps, [H+], e Ka.

In generale, per un sale di formula generica MX derivante dall’acido debole HX, la solubilità s in funzione di [H+] è data da: s = [M+] = √ Kps (1 + [H+]/Ka). Si osserva che la solubilità s cresce con l’aumentare di [H+], ovvero con la diminuzione del pH. Quando [H+] = Ka, ossia quando pH = pKa, si ottiene: s = √2 Kps. Per valori bassi di [H+], corrispondenti a pH elevati, la solubilità risulta praticamente indipendente dal pH. Se [H+] ˃ Ka, cioè quando pH ˂ pKa, la solubilità aumenta rapidamente.

In conclusione, la solubilità dei composti è strettamente correlata al pH e alle proprietà acide e basiche dei componenti. Questa relazione offre un’importante prospettiva per comprendere le condizioni di precipitazione dei composti chimici.

Grassi idrogenati e margarine

Grassi idrogenati e margarine: dalla chimica alle condizioni di produzione

I grassi idrogenati, ottenuti trattando oli con idrogeno gassoso e catalizzatori metallici, subiscono un processo chimico che aumenta il rischio cardiovascolare a causa della trasformazione dei legami insaturi. La presenza dell’isomero trans altera la struttura dell’acido grasso con conseguente aumento del rischio cardiovascolare. Tali prodotti sono preferibilmente ottenuti in condizioni di reazione controllate.

Come catalizzatore si utilizza il nichel metallico finemente suddiviso su un supporto di farina fossile. L’utilizzo di idrogeno gassoso molto puro, privo di sostanze nocive come tioli, solfuro di idrogeno, biossido di carbonio, insieme a un controllo della temperatura e dell’agitazione della massa nel corso della reazione, diminuisce il fenomeno dell’.

Inoltre, variazioni di pressione da ,5 a 5 atm favoriscono l’omogeneità del prodotto finale. Alla fine dell’idrogenazione, i grassi vengono filtrati a caldo, deodorati e, se necessario, deacidificati. L’utilizzo maggiore dei grassi idrogenati si ha nella fabbricazione delle margarine, in miscela con grassi naturali, o negli shortening, prodotti simili alle margarine.

Margarine: composizione e fabbricazione

Le margarine sono emulsioni acquose stabili di grassi di origine vegetale o animale, diverse dal burro e dal grasso di maiale. Esse devono avere un’acidità libera non superiore all’1%, non contenere coloranti vietati né conservanti nocivi alla salute. La composizione gliceridica delle margarine varia notevolmente, ma in commercio si distinguono due tipi base destinati al consumo diretto o all’uso industriale.

La qualità della margarina dipende principalmente dalla purezza delle materie prime impiegate. La fabbricazione industriale si realizza in impianti a funzionamento continuo e inizia dalla fase acquosa e dalla fase grassa. La fase acquosa, costituita da latte opportunamente inacidito o da latticello, siero o latte in polvere solubilizzato, viene addizionata di piccole quantità di sostanze destinate a migliorare sapore ed aroma del prodotto come cloruro di sodio, , citrato di isopropile.

Alla fase grassa, prima sterilizzata e poi portata alla temperatura di fusione, si aggiungono emulsionanti come mono- e di-, lecitine, coloranti come β carotene, e vitamine A, D, E. Solo successivamente si procede all’emulsionamento delle due fasi, alla refrigerazione e omogeneizzazione.

Queste informazioni forniranno una panoramica completa sulle margarine, dai processi chimici alla produzione, offrendo una comprensione più approfondita di questi prodotti comuni. Questa comprensione più chiara fornirà ai consumatori la consapevolezza necessaria per fare scelte informate riguardo all’uso delle margarine nella loro dieta.

Nomenclatura degli acidi ternari

Nomenclatura degli acidi ternari

La nomenclatura degli acidi ternari può destare confusione a causa delle diverse denominazioni usate, sia secondo le IUPAC che secondo la tradizione.

Gli acidi ternari sono composti che contengono idrogeno, ossigeno e un non metallo. La loro formula prevede che gli elementi siano elencati nell’ordine: idrogeno, non metallo, ossigeno. Tali acidi si ottengono mediante l’aggiunta di agli ossidi acidi ().

La nomenclatura IUPAC prevede che tutti gli acidi siano chiamati “acido”, seguito dal suffisso “-ico” aggiunto al nome del non metallo. Inoltre, il numero di atomi di ossigeno presenti viene indicato con i prefissi “monosso-“, “diosso-“, “triosso-“, ecc. Infine, si aggiunge tra parentesi il del non metallo.

Ad esempio:
– HNO₃ viene chiamato acido triossonitrico (V).
– HNO₂ viene chiamato acido diossonitrico (III).
– H₃PO₄ viene chiamato acido tetraossofosforico (V).

Per la , gli ossiacidi sono denominati aggiungendo il suffisso “-ico” alla radice del non metallo, tranne per lo zolfo (radice solfor-) e l’azoto (radice nitr-). Nel caso in cui un non metallo formi più di due ossiacidi, si usano i prefissi “ipo-” e “per-” insieme ai suffissi “-oso” e “-ico”.

Ad esempio:
– HClO viene chiamato acido ipocloroso.
– HClO₂ viene chiamato acido cloroso.
– HClO₃ viene chiamato acido clorico.
– HClO₄ viene chiamato acido perclorico.

In conclusione, la nomenclatura degli acidi ternari può seguire le regole IUPAC o quelle tradizionali, a seconda delle preferenze o delle esigenze di comunicazione. La corretta comprensione di entrambe le modalità di denominazione è essenziale per un adeguato studio e utilizzo degli acidi ternari.Nomenclatura degli acidi: acido iodico, acido periodico e altri composti

L’acido iodico è rappresentato dalla formula HIO3, con lo iodio che ha un numero di ossidazione di +3. Invece, l’acido periodico è rappresentato dalla formula HIO4, con lo iodio che ha un numero di ossidazione di +7.

Secondo la nomenclatura tradizionale, vengono assimilati agli acidi anche i composti binari costituiti da idrogeno e non metallo, che sono denominati idracidi. Tuttavia, nella nomenclatura I.U.P.A.C. questi composti vengono inseriti tra i composti binari. Per assegnare il nome tradizionale a un idracido, si aggiunge il suffisso –idrico alla radice del nome del non metallo. Ad esempio, HCl viene denominato acido cloridrico, che nella nomenclatura I.U.P.A.C. viene detto cloruro di idrogeno.

Quando da uno stesso ossiacido si possono formare diversi tipi di ossiacidi a seconda del diverso rapporto fra le molecole di anidride e quelle di acqua, si usano particolari prefissi (meta-, orto-, piro-, poli-). Ad esempio, l’acido metaborico (HBO2), l’acido ortoborico (H3BO3) e l’acido tetraborico (H3B4O7).

Lo stesso concetto si applica anche ad altri acidi come l’acido metafosforico, l’acido ortofosforico e l’acido pirofosforico, e all’acido metasilicico, l’acido ortosilicico, l’acido pirosilicico e l’acido trisilicico.

Nella tabella vengono messe a confronto le nomenclature I.U.P.A.C. e tradizionale di alcuni acidi, come ad esempio l’ioduro di idrogeno (HI) e l’acido iodidrico, nonché l’acido triossosolforico (IV) e l’acido solforoso.

Polimeri termoindurenti e termoplastici

Polimeri termoindurenti e termoplastici: le diverse tipologie di composti macromolecolari

I polimeri costituiscono una vasta gamma di materiali che si distinguono principalmente in due categorie: polimeri termoindurenti e termoplastici. Le diverse proprietà meccaniche di questi materiali li rendono adatti a specifiche applicazioni e cicli tecnologici.

Le caratteristiche distintive dei polimeri, come il modulo elastico, il carico di rottura, la cristallinità, la rigidità e la flessibilità, permettono di classificarli in tre categorie: materiali plastici, fibre ed elastomeri.

I materiali plastici rigidi, come il polistirene e il polimetilmetacrilato, sono di polimeri amorfi, mentre i materiali plastici flessibili, come il e il , presentano discrete quantità di cristallinità. Le fibre, come il poliesametilendiammide e il polietilentereftalato, sono invece caratterizzate da elevati livelli di cristallinità. Gli elastomeri, come il poliisoprene e il policloropropene, sono polimeri amorfi che possono sviluppare cristallinità in seguito all’allungamento, aumentandone così la resistenza meccanica.

Polimeri termoindurenti

I polimeri termoindurenti sono sostanze che, in determinate condizioni di temperatura e/o in presenza di particolari sostanze, si trasformano in materiali rigidi, insolubili e infusibili. Questa trasformazione avviene attraverso reazioni di reticolazione, noto come “curing”, che si verificano fra le catene polimeriche con la formazione di legami forti.

Alcuni polimeri termoindurenti possono essere reticolati tramite , pressione o reazioni chimiche a temperatura ambiente. Questa trasformazione rende tali materiali difficilmente riciclabili in quanto i nuovi legami formati sono permanenti. I materiali termoindurenti possono essere lavorati con le stesse tecnologie dei materiali termoplastici, a condizione che la reticolazione avvenga successivamente alla formatura del materiale definitivo.

Usi dei polimeri termoindurenti

I polimeri termoindurenti trovano impiego in vari settori, come ad esempio nel settore degli adesivi, delle vernici e degli smalti, nonché come isolanti degli aerei. Due esempi noti di polimeri termoindurenti sono il poliuretano (PU) e le .

Polimeri termoplastici

I polimeri termoplastici, al contrario, manifestano forti decrementi di viscosità al riscaldamento e conservano la capacità di scorrere a temperature elevate per un periodo prolungato. Dopo il raffreddamento, essi mantengono la forma definita e la trasformazione è reversibile, sebbene possa verificarsi una certa degradazione che limita il numero di cicli possibili.

È importante studiare la curva sforzo-deformazione per capire come i polimeri termoplastici si deformino in seguito all’applicazione di una forza esterna.

Lavorazione dei polimeri termoplastici

Nella lavorazione dei polimeri termoplastici, è fondamentale operare a basse viscosità e alte temperature, compatibilmente con la stabilità termica del materiale. Inoltre, per i polimeri parzialmente cristallini, è possibile che si verifichino condizioni metastabili durante il raffreddamento della massa al di sotto del punto di fusione delle zone cristalline, con conseguente postcristallizzazione.

Alcuni esempi noti di polimeri termoplastici sono il polietilene (PE), il polietilentereftalato (PET) e il polipropilene (PP).

In conclusione, la distinzione tra polimeri termoindurenti e termoplastici è fondamentale per comprendere le diverse proprietà e applicazioni di questi sostanziali polimeri.

Conduttività equivalente limite degli elettroliti

La conduttività equivalente a diluizione infinita dei

La conduttività equivalente a diluizione infinita di una soluzione è data dalla somma della mobilità del catione e dell’anione che non si influenzano tra di loro.

Il massimo valore assunto dalla conduttività equivalente della soluzione di un elettrolita è detta conduttività equivalente limite o conduttività equivalente a diluizione infinita e viene simboleggiata con Λo.

Il valore di Λo è caratteristico per ciascun elettrolita ed esso è raggiunto quando la sua dissociazione nella soluzione è completa, ovvero il α è pari a .

Elettroliti forti
Se l’elettrolita è forte, il suo grado di dissociazione è uguale a 1 già in soluzioni mediamente diluite. Pertanto, aumentando la diluizione diminuisce subito la conduttività specifica χ, ovvero il numero di ioni per cm3. Tuttavia, aumenta in egual misura Veq a causa dell’aggiunta del solvente e quindi la conducibilità equivalente Λo rimane costante. Si ricordi che la conducibilità equivalente Λo è data dal prodotto χ Veq.

Elettroliti deboli
Se invece l’elettrolita è debole, il suo grado di dissociazione è minore di 1 anche in soluzioni molto diluite. Pertanto, aggiungendo il solvente inizialmente aumenta sia χ (in quanto aumenta il numero di ioni presenti per cm3) sia Veq. Quindi si ha un aumento della conduttività equivalente della soluzione.
Continuando a diluire la soluzione, anche l’elettrolita debole si dissocia del tutto. La diminuzione di χ provocata dall’ulteriore diluizione è compensata dall’aumento di Veq. Pertanto, da questo momento in poi la conduttività equivalente Λo rimane costante.


Tale difficoltà fu superata con la “legge dell’indipendente mobilità degli ioni” dedotta da Kohlrausch. Lo scienziato notò sperimentalmente che la differenza tra i valori di Λo di soluzioni di elettroliti forti, aventi in comune lo stesso catione, ovvero lo stesso anione, era costante nello stesso solvente e alla medesima temperatura. Ciò implicava l’assenza di reciproche interazioni.

A 25°C i valori della conduttività equivalente limite ottenuta per estrapolazione grafica dei due elettroliti forti KNO3 e NaNO3 (aventi in comune lo ione nitrato) sono:
Λo KNO3 = 144.96
Λo NaNO3 = 121.55
La differenza tra tali valori corrisponde a 23.41. Consideriamo altri due elettroliti forti aventi in comune lo stesso anione, ma con gli stessi due degli elettroliti precedenti e precisamente K+ e Na+. Si deve avere per confermare la veridicità della legge dell’indipendente mobilità degli ioni che la differenza delle conduttività ioniche equivalenti a diluizione infinita deve essere la stessa. Infatti, dai risultati sperimentali si ottiene, per estrapolazione, che:
Λo KF = 128.92
Λo NaF =105.51
La cui differenza dà nuovamente lo stesso valore corrispondente a 23.41.

A diluizione infinita, quindi, le conduttività equivalenti non risentono dell’effetto di interazione degli ioni presenti in soluzione. Ciò è dovuto alla elevata distanza alla quale si trovano gli ioni che impedisce agli stessi interazioni elettrostatiche di tipo coulombiano. La legge afferma che “la conduttività equivalente a diluizione infinita della soluzione di un elettrolita è data dalla somma della mobilità del suo catione (lo+) e del suo anione (lo-)” che, in tali condizioni, non si influenzano reciprocamente.

Coefficiente di attività degli elettroliti

Il Coefficiente di attività negli : Definizione e calcolo

Il coefficiente di attività degli elettroliti è un elemento chiave nello studio delle reazioni di equilibrio degli elettroliti. Durante tale , si devono considerare due fattori principali. In primo luogo, il numero di particelle presenti in soluzione risulta essere superiore a quanto previsto senza la dissociazione. Questa considerazione è cruciale nelle indagini sulle proprietà colligative delle soluzioni, come la crioscopia e la pressione osmotica, che sono strettamente legate all’indice di vant’Hoff e al numero di particelle in soluzione. Per la concentrazione molare c di un soluto, l’attività a è correlata mediante il coefficiente di attività del soluto γ.

Il coefficiente di attività rappresenta l’effettiva concentrazione di un soluto in soluzione, considerando l’effettivo numero di particelle che partecipano attivamente a un dato fenomeno. Fra la concentrazione molare c di un soluto e la sua attività a esiste la relazione:
a = γ ∙ C

L’attività è espressa da un numero puro, quindi il coefficiente di attività ha come unità di misura l’inverso della concentrazione. Il coefficiente di attività può variare tra zero e uno, con valori più alti che si ottengono in soluzioni diluite.

Per determinare il coefficiente di attività medio di un elettrolita binario in soluzione, come NaCl o NH4Cl, gli scienziati Debye e Hückel hanno definito la legge di Debye e Hückel. Secondo tale legge, il coefficiente di attività medio di un elettrolita binario in soluzione può essere calcolato tramite l’equazione:
– log γ± = A ZcZa√μ / + B d√μ

Dove γ± è il coefficiente di attività medio dell’elettrolita binario, Zc è la carica, in valore assoluto, del catione,d è il valore medio, in angstrom, del diametro degli ioni idrati, μ è la della soluzione e A e B sono costanti empiriche.

Per calcolare la forza ionica di una soluzione contenente ioni Na+, Ca2+, Cl- e SO42- con tutte le concentrazioni a 0.20 M, si utilizza l’equazione:
μ = 1/2Σ CiZi2.

Allo stesso modo, per calcolare il coefficiente di attività medio dell’acido cloridrico in una soluzione 0.10 M a 25°C, sono necessari calcoli specifici che tengono conto del diametro medio dell’elettrolita e delle costanti A e B.

Questi dati e le formule consentono di comprendere il comportamento degli elettroliti in soluzione, determinando il numero effettivo di particelle attive in un dato fenomeno e come le forze ioniche influenzano il coefficiente di attività medio.

Nomenclatura dei composti binari

Nomenclatura dei Composti Binari: Differenze tra e Tradizionale

I composti binari sono quei composti costituiti da due specie chimiche, in cui il numero di atomi di ciascun elemento può variare. Ad esempio, la molecola di è un esempio di composto binario poiché contiene due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno.

La , basata sull’uso di prefissi e suffissi correlati al numero di ossidazione degli atomi, è spesso utilizzata per denominare i composti binari. Tuttavia, la nomenclatura I.U.P.A.C. mira a rendere immediatamente evidente il numero di atomi o gruppi chimici presenti in una molecola, eliminando l’ambiguità.

I composti binari possono essere suddivisi in due categorie: composti contenenti ossigeno e composti non contenenti ossigeno.

Composti Contenenti Ossigeno

Per la nomenclatura I.U.P.A.C., i composti contenenti ossigeno sono chiamati ossidi, e per la loro denominazione si utilizza l’espressione “ossido di …” seguita dal nome dell’elemento legato all’ossigeno. Ad esempio, CaO è denominato ossido di calcio. Nel caso di più atomi di ossigeno o più atomi dell’altro elemento, o di entrambi, viene indicato il numero di atomi mediante i prefissi mono, di, tri, tetra, penta, ecc. Ad esempio, Na2O è denominato monossido di disodio, Al2O3 viene denominato triossido di bialluminio.

Per la nomenclatura tradizionale dei composti binari contenenti ossigeno, si fa distinzione tra ossidi e . Gli ossidi sono costituiti da metallo e ossigeno, mentre le anidridi da non metallo e ossigeno. La denominazione tiene conto degli stati di ossidazione del metallo e del non metallo, utilizzando suffissi come “-oso” e “-ico”.

Inoltre, la nomenclatura tradizionale porta a situazioni singolari: per esempio, il carbonio forma due composti binari con l’ossigeno, CO e CO2. Il primo viene denominato ossido di carbonio, mentre il secondo anidride carbonica.

Composti Senza Ossigeno

Nomenclatura dei Composti Binari

Per denominare i composti binari, è necessario prendere in considerazione la formula e seguire alcune regole. In particolare, si aggiunge il suffisso –uro alla radice del nome dell’elemento, presente a destra nella formula. Ad esempio, NaF sarà denominato fluoruro di sodio. Nel caso vi siano più atomi di uno dei due elementi, o di entrambi, viene indicato il loro numero mediante i prefissi: di-, tri- ecc. Ad esempio, Fe2S3 sarà denominato trisolfuro di diferro. Le formule sono scritte mettendo per primo l’elemento meno elettronegativo. Per scrivere la formula di un composto binario a partire dal suo nome, si scrive a destra l’elemento con desinenza –uro e a sinistra l’altro elemento; quindi si inseriscono gli eventuali indici.

Nomenclatura Tradizionale

I composti tradizionali che non contengono ossigeno presentano una molteplicità di denominazioni. Quando vi sono più composti formati dalla stessa coppia di elementi si ricorre , anche in questo caso, ai suffissi –oso e –ico. Si ritiene utile elencare in tabella alcuni composti binari non contenenti ossigeno affiancando, alla nomenclatura I.U.P.A.C. quella tradizionale. Ecco alcuni :
– CaC2: Dicarburo di calcio (Carburo di calcio)
– AlF3: Trifluoruro di alluminio (Fluoruro di alluminio)
– PH3: Triidruro di fosforo (Fosfina)
– SbH3: Triidruro di antimonio (Stibina)
– H2S: Solfuro di diidrogeno (Acido solfidrico)

È importante conoscere questi dettagli per riconoscere e denominare correttamente i composti binari.

Cromatografia su strato sottile

Cromatografia su strato sottile: Principi e Applicazioni

La cromatografia su strato sottile è una tecnica di microscopica che combina i vantaggi della cromatografia su carta e su colonna. Si tratta di una separazione rapida e ad alta risoluzione di sostanze, ed è particolarmente utile per le indagini preliminari e di routine.

Preparazione dello strato adsorbente

La preparazione dello strato adsorbente è cruciale e richiede uniformità e spessore costante. Il materiale adsorbente, generalmente una pasta, viene distribuito su una lastra di vetro utilizzando uno stratificatore. Dopo l’essiccazione in stufa, le lastre vengono conservate in un essiccatore per evitare l’assorbimento di .

Eluizione e Eluente

Dopo l’applicazione del campione, le lastre vengono poste in una vasca contenente l’eluente, che si muove per capillarità lungo lo strato in senso ascendente. La scelta dell’eluente è essenziale per il successo dell’analisi. Solventi più polari sono utilizzati per sostanze con maggiore polarità.

Ruolo degli Adsorbenti

Gli adsorbenti più comuni per questa tecnica sono il , l’allumina, il kieselguhr e la polverizzata, ognuno con caratteristiche specifiche. Aggiungere piccole quantità di additivi può migliorare la compattezza dello strato.

Parametri di Prestazione

Le prestazioni della cromatografia su strato sottile possono essere valutate in termini di selettività, efficienza, risoluzione, capacità e riproducibilità. Ognuno di questi parametri è cruciale per ottenere risultati affidabili e riproducibili.

Concludendo, la cromatografia su strato sottile è una tecnica analitica potente e versatile, che trova ampie applicazioni in vari settori scientifici e industriali. La sua capacità di separazione rapida e accurata la rende uno strumento indispensabile per analisi di laboratorio avanzate.

è in caricamento