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Determinazione del ferro (II) con bicromato: reazioni, metodica

Analisi del ferro (II) mediante titolazione con bicromato di potassio

La quantificazione del ferro (II) può essere effettuata attraverso una titolazione redox utilizzando il bicromato di potassio come ossidante. Questo metodo alternativo alla permanganometria presenta vantaggi come la maggiore stabilità del bicromato rispetto al permanganato e la non necessità di della soluzione.

Reazioni redox

La semireazione di riduzione del bicromato è data da:

Cr2O7^2- + 14 H^+ + 6 e^- → 2 Cr^3+ + 7 H2O (E° = +.33 V)

Mentre la semireazione di del ferro (II) è:

Fe^2+ → Fe^3+ + 1 e^- (E° = -0.77 V)

La reazione complessiva è:

Cr2O7^2- + 6 Fe^2+ + 14 H^+ → 2 Cr^3+ + 6 Fe^3+ + 7 H2O (E° = +0.56 V)

Per questa titolazione è necessario un indicatore redox come la difenilammina solfonato di sodio per il cambio di colore tra verde e viola.

Procedura

Per preparare la soluzione standard, sciogliere circa 1.0-1.2 g di bicromato di potassio in acqua portando a volume in un matraccio tarato da 250 mL. Successivamente, trasferire in una beuta 10.0 mL della soluzione contenente ferro (II) e aggiungere 25 mL di HCl e 10 mL di H3PO4 1 M. Aggiungere 8 gocce di difenilammina solfonato di sodio e titolare con la soluzione standard di bicromato fino al cambiamento di colore dell’indicatore. Ripetere la titolazione per garantire la precisione dei risultati.

Supponendo che la massa di bicromato utilizzata sia di 1.115 g, le moli di bicromato sono 0.003790. Quindi, la molarità della soluzione standard di bicromato è 0.01516. Se, ad esempio, occorrono 22.1 mL di bicromato per titolare il ferro (II), le moli di bicromato sono 0.000335. Considerando il rapporto stechiometrico 1:6 tra bicromato e ferro (II), si ottengono 0.00201 moli di Fe^2+.

Questi calcoli consentono di determinare sia la massa che la molarità di ferro (II) presenti in 10.0 mL della soluzione incognita. Ripetere i calcoli per le tre titolazioni e calcolare la dei risultati ottenuti.

Alcossidi metallici: reazioni

Utilizzo e degli Alcossidi Metallici

Gli alcossidi metallici, rappresentati dalla formula generale M(OR)n, dove R è un radicale alchilico o arilico e n è la valenza del metallo, sono basi coniugate degli alcoli (RO-) con sostituenti organici. Simili ai loro precursori alcolici, gli alcossidi derivano dall’idrogeno alcolico sostituito da un metallo.

Proprietà e Solubilità

Le proprietà degli alcossidi metallici variano in base al tipo di metallo e al gruppo alchilico ad esso legato. Solitamente solubili negli alcoli corrispondenti, gli alcossidi manifestano colorazioni se il metallo presente è colorato. Inoltre, sono soggetti a idrolisi e reagiscono con gli alcoli secondo la reazione di equilibrio MOR + R’OH ⇌ MOR’ + ROH.

Applicazioni nella Deposizione Chimica da Vapore

Gli alcossidi metallici sono impiegati nella deposizione chimica da vapore come precursori degli ossidi metallici solidi che si depositano substrati.

Reazioni e Catalizzatori

Reazioni degli Alcossidi Metallici

Gli alcossidi metallici sono ampiamente utilizzati come catalizzatori in diverse reazioni, tra cui:

degli esteri: RCOOR’ + R”OH → RCOOR” + R’OH, con l’alcossido di tallio Tl(OR)4 come catalizzatore.
: R’R”CHOH + (CH3)2CO → R’R”CO + CH3CH(OH)CH3, con l’alcossido di alluminio Al(OR)3 come catalizzatore.
: 2 RCHO → RCOOCH2R, con l’alcossido di sodio NaOR come catalizzatore.

Alcossidi Doppio

Inoltre, è possibile che alcune alcossidi metallici reagiscano tra loro per formare alcossidi doppi, ad esempio, NaOC2H5 + Al(OC2H5)3 → NaAl(OC2H5)4.

Cloro: metodi di preparazione

La scoperta del cloro risale al 1774 quando il chimico svedese Carl Wilhelm Scheele ottenne per la prima volta questo elemento trattando il minerale pirolusite con acido cloridrico. Inizialmente, si riteneva che il prodotto contenesse ossigeno; solo nel 1810 il chimico britannico Sir Humphry Davy dimostrò che si trattava di un nuovo elemento.

Applicazioni e preparazione del cloro

Il cloro trova impiego in diversi settori come sbiancante, disinfettante per la potabilizzazione dell’acqua e nella sintesi di sostanze come il polivinilcloruro e il tetracloroetene. Per la sua preparazione sono stati sviluppati vari metodi.

Preparazione da HCl in presenza di un ossidante

Il cloro può essere ottenuto a partire dall’acido cloridrico utilizzando un agente ossidante come l’ossido di manganese (IV), l’ossido di piombo (IV), l’ossido di piombo (II), il bicromato di potassio o il permanganato di potassio. Le coinvolte sono varie e prevedono il rilascio di cloro gassoso.

Preparazione da un cloruro in presenza di un ossidante

Un altro metodo per la produzione del cloro prevede il trattamento di un cloruro come il cloruro di sodio con acido solforico concentrato e un agente ossidante. La reazione avviene in due stadi: inizialmente si forma acido cloridrico che successivamente reagisce con l’agente ossidante producendo cloro.

In sintesi, il cloro è un elemento chimico con numerose applicazioni e la sua produzione può avvenire attraverso diversi processi chimici utilizzando opportuni reagenti e condizioni di reazione.

Processo di Sintesi del Cloro: Metodo Deacon e Metodo Attuale

Sintesi Industriale del Cloro

Un importante processo industriale per la produzione di cloro è stato proposto intorno al 1868 da Henry Deacon. Questo metodo si basava sull’ dell’acido cloridrico con l’ossigeno atmosferico, ottenuto come sottoprodotto dal processo Leblanc per la sintesi del carbonato di sodio. Tuttavia, con l’avvento del metodo Solvay, il è caduto in disuso.

Nel processo Deacon, l’acido cloridrico reagisce con l’ossigeno a 450°C, insieme all’ossido di rame (II) come catalizzatore, secondo la seguente equazione:

4 HCl + O2 → 2 Cl2 + 2 H2O

Il meccanismo di azione del catalizzatore prevede la del rame (II) a rame (I) attraverso la reazione:

2 CuCl2 → 2 CuCl + Cl2

Il cloruro di rame (I) reagirà poi con l’ossigeno secondo l’equazione:

4 CuCl + O2 → 2 [CuO∙CuCl2]

Infine, si avrà la formazione di cloruro di rame (II) nell’ultimo stadio della reazione:

CuO∙CuCl2 + 2 HCl → 2 CuCl2 + H2O

Oggi il cloro viene principalmente prodotto tramite l’elettrolisi di una soluzione di cloruro di sodio.

Al catodo (-): 2 H2O(l) + 2 e→ 2 OH + H2
All’anodo (+): 2 Cl → Cl2 + 2 e

La reazione complessiva è rappresentata da:

2 NaCl + 2 H2O → 2 Na+ + 2 OH. + H2 + Cl2

Perossidazione lipidica: meccanismo

La perossidazione lipidica è un processo in cui agenti ossidanti come le specie reattive all’ossigeno (ROS) e i radicali liberi attaccano i lipidi contenenti doppi legami, in particolare gli acidi grassi polinsaturi.

L’aumento della produzione di radicali liberi può verificarsi in diverse condizioni come stati infiammatori, metabolismo di ormoni, farmaci e tossine, nonché esposizione a radiazioni ionizzanti che possono superare gli antiossidanti protettivi endogeni, causando danni alla struttura e alla funzionalità della membrana cellulare.

Ruolo dei ROS

Le specie reattive all’ossigeno coinvolte nella perossidazione lipidica sono principalmente il radicale idroperossido HO2∙ e il radicale idrossile HO∙, con quest’ultimo che risulta essere il più reattivo e dannoso per le biomolecole. Questi radicali si formano in seguito a processi come la disproporzione del radicale superossido e interazioni con ioni metallici come il ferro, il rame, il nichel, il cobalto e il vanadio.

Il radicale idroperossido è fondamentale nell’ossidazione a catena dei fosfolipidi polinsaturi, compromettendo la funzione della membrana cellulare e contribuendo alla perossidazione lipidica.

Meccanismo della perossidazione

Il processo della perossidazione lipidica si articola in tre stadi fondamentali:

1. Innesco: coinvolge la formazione dei radicali liberi attraverso processi come la cessione diretta di elettroni a ossigeno anziché ai trasportatori successivi, generando radicali superossido e radicale idrossile.

2. Propagazione: i radicali liberati iniziano a reagire con i lipidi polinsaturi, generando nuovi radicali e avviando un ciclo di reazioni che danneggiano la struttura dei lipidi.

3. Terminazione: in questa fase, si formano composti stabili che mettono fine alla reazione a catena dei radicali liberi, limitando i danni alla membrana cellulare.

In conclusione, la perossidazione lipidica rappresenta un processo dannoso per le cellule e i tessuti, influenzato principalmente da ROS e radicali liberi che compromettono l’integrità e la funzionalità della membrana cellulare. Svolgendo un ruolo chiave in vari processi fisiologici e patologici, la comprensione di questo meccanismo è cruciale per lo sviluppo di strategie terapeutiche mirate a contrastarne gli effetti negativi.

Reazioni Radicaliche e Fasi Principali

Le reazioni radicaliche sono caratterizzate da tre fasi fondamentali: iniziazione, propagazione e terminazione. Durante l’iniziazione, si forma un radicale sul carbonio attraverso la scissione omolitica di un legame e l’allontanamento di un idrogeno allilico.

Fase di Propagazione

Nella fase di propagazione, il radicale formatosi reagisce rapidamente con l’O2 per formare un radicale idroperossi instabile. Questo radicale reattivo, a sua volta, interagisce con l’acido grasso per generare idroperossidi e radicali reattivi.

Prodotti di Terminazione

La reazione di propagazione continua fino alla formazione dei prodotti di terminazione, che comprendono una vasta gamma di prodotti di ossidazione. Tra i principali prodotti della perossidazione lipidica vi sono gli idroperossidi lipidici ROOH e diversi composti secondari come aldeidi, tra cui il propanale, l’esanale, la malondialdeide (MDA) e il 4-idrossinonenale (4-HNE). Quest’ultimo risulta essere il più tossico, mentre la MDA è il più mutagenico.

La perossidazione lipidica è responsabile dell’invecchiamento precoce delle cellule e può causare lo sviluppo di gravi patologie, tra cui il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer e il cancro. Questo processo di ossidazione può avere conseguenze significative sulla salute umana.

Se desideri approfondire l’argomento sulle reazioni radicaliche e i loro effetti sulla salute, puoi consultare ulteriori informazioni su [chimica organica](http://chimicamo.org//chimica-organica/reazioni-dei-radicali-liberi/) e [idroperossidi](https://chimica.today/chimica-organica/idroperossidi/).

Burro di arachidi: composizione

Burro di arachidi: , curiosità e composizione nutrizionale

Il burro di arachidi è un alimento molto popolare negli Stati Uniti, consumato sia a colazione che come condimento per panini o piatti vari. Ogni anno, il 24 gennaio, viene celebrato il National Peanut Butter Day negli USA per onorare questo alimento, che gli statunitensi consumano in media oltre 2,7 kg all’anno per persona.

Storicamente, l’uso delle arachidi risale agli Aztechi e agli Incas, che le utilizzavano tostate e tritate insieme ad altre spezie. Nel 1884, il chimico canadese Marcellus Gilmore Edson ottenne il brevetto della pasta di arachidi, dando origine alla consistenza burrosa che conosciamo oggi.

Durante le due guerre mondiali, le truppe americane utilizzarono il burro di arachidi per il suo alto valore nutrizionale. Negli anni ’80 e ’90, le vendite diminuirono a causa di preoccupazioni sulla sua salubrità, ma successivamente aumentarono nuovamente, grazie al suo costo accessibile e al suo valore nutrizionale (100 g forniscono circa 588 kcal).

Il burro di arachidi è utilizzato non solo come spalmabile, ma anche per preparare frappè, dolci e gelati. Tuttavia, è importante considerare che le arachidi sono una delle principali cause di allergie alimentari.

Composizione nutrizionale del burro di arachidi

Il burro di arachidi è composto per circa il 20% da carboidrati (saccarosio, amidi e fibre) e per il 50% da grassi di vario tipo. Tra i grassi presenti ci sono saturi come l’acido palmitico, monoinsaturi come l’ e polinsaturi come l’acido linoleico.

Le proteine costituiscono circa il 25%, contenendo aminoacidi come e . Inoltre, è ricco di vitamine del gruppo B (B1, B2, B3, B5, B6, B9) e vitamina E, e di minerali come calcio, ferro, magnesio, manganese, fosforo, potassio, sodio, zinco e .

È importante consumare il burro di arachidi con moderazione, considerando che le arachidi sono uno degli allergeni più comuni e possono scatenare reazioni allergiche in alcuni individui. Porzioni moderate possono far parte di una dieta equilibrata, offrendo un mix di grassi sani, proteine e sostanze nutrienti.Il burro di arachidi è un alimento popolare e apprezzato da molti per il suo sapore unico e la sua versatilità in cucina. Tuttavia, è importante tenere presente che le arachidi sono uno degli allergeni alimentari più comuni e possono causare reazioni avverse in alcune persone, tra cui la grave reazione anafilattica, che può portare allo shock e persino alla morte se non trattata tempestivamente.

La Preparazione del Burro di Arachidi

Per ottenere il burro di arachidi, le arachidi vengono tostate per ridurre il grado di umidità e conferire loro un sapore croccante grazie alla reazione di Maillard. Successivamente, le arachidi vengono raffreddate e le bucce vengono rimosse riscaldandole con acqua o aria, in modo che possano essere facilmente asportate. Questo processo non solo migliora la consistenza del prodotto finale, ma contribuisce anche a eliminare eventuali microrganismi nocivi.

La Creazione della Pasta di Arachidi

Una volta rimosse le bucce, le arachidi vengono passate attraverso macchinari specializzati almeno due volte per ottenere una consistenza fine di circa 25 micron, consentendo una miscelazione completa. Durante questo processo, possono essere aggiunti altri ingredienti a discrezione del produttore, come sale, oli aggiuntivi e aromi per personalizzare il prodotto.

Il burro di arachidi viene infine raffreddato e confezionato in vasetti di plastica o vetro sottovuoto per garantirne la conservazione a lungo termine e evitare l’ossidazione che potrebbe comprometterne la qualità.

Conclusioni

Il processo di produzione del burro di arachidi richiede attenzione ai dettagli per garantire la qualità e la sicurezza del prodotto finale. Rispettando le corrette procedure, è possibile ottenere un burro di arachidi gustoso e nutriente, pronto per essere utilizzato in molteplici ricette culinarie.

Per ulteriori informazioni sulla chimica dei cibi, puoi approfondire sull’argomento consultando il link sulla reazione di Maillard.

Titolazioni e esercizi svolti

in volumetrica: esercizi tipici

Le titolazioni rappresentano una tecnica fondamentale nell’ambito dell’ per la determinazione quantitativa di un analita. Esse possono essere di diversi tipi, tra cui le titolazioni acido-base, ossidimetriche, complessometriche e per precipitazione.

Esercizio : Determinazione del ferro in un campione

Nell’esercizio in questione, si analizza un campione contenente ferro solubilizzato in HCl, trasformato in ferro (II) e titolato con bicromato di potassio. Utilizzando 36.92 mL di bicromato 0.02153 M, si calcola che la percentuale di ferro nel campione, espressa come % m/m in Fe2O3, è del 77.86%.

Esercizio 2: Quantità di ipoclorito di sodio

Nel secondo esercizio, si parte da un campione di candeggina diluito e si determina la quantità di ipoclorito di sodio presente. Titolando il triioduro ottenuto con 8.96 mL di tiosolfato di sodio 0.09892 M, si calcola che la percentuale di ipoclorito di sodio nel campione è del 5.28%.

Esercizio 3: Concentrazione di biossido di azoto in aria

Infine, viene calcolata la concentrazione di biossido di azoto presente nell’aria, ossidando il NO2 a HNO3 e titolando con NaOH. Dai effettuati, si ottiene che la concentrazione di NO2 nella soluzione è di 0.852 mg/L.

Attraverso questi esercizi tipici di titolazioni in analisi volumetrica, è possibile comprendere e applicare i principi fondamentali di questa tecnica analitica.

Tetradotossina: meccanismo di azione, pesce palla

La tetradotossina (TTX) è una pericolosa tossina naturale, presente in alcuni tipi di pesci come il pesce palla, celebre per la sua pericolosità. Questa sostanza velenosa viene anche rinvenuta nel polpo dagli anelli blu, nelle rane velenose e nei tritoni dalla pelle ruvida, ed è prodotta da batteri simbiotici accumulati dai pesci palla.

La tetradotossina è estremamente potente, superando il cianuro di potassio in tossicità. In particolare, rappresenta un grave pericolo per i giapponesi, che considerano il pesce palla una prelibatezza culinaria, spesso consumato crudo come sashimi. È importante notare che la tossina è stabile al calore, quindi la cottura del pesce non ne riduce la pericolosità.

In Giappone, esistono chef specializzati che sono addestrati a rimuovere accuratamente le parti del pesce palla che contengono la tetradotossina, come il fegato, le ovaie, l’intestino e la pelle. Nonostante l’addestramento rigoroso di tre anni e gli esami pratici e teorici, alcune decine di giapponesi muoiono ancora ogni anno a causa di avvelenamento da tetradotossina.

Recenti studi hanno dimostrato che la presenza di tetradotossina si è diffusa non solo nelle regioni del Sud-est asiatico, ma anche nel Pacifico e nel Mediterraneo, probabilmente a causa dell’aumento della temperatura dei mari.

Il meccanismo d’azione della tetradotossina consiste nel bloccare i , impedendo il passaggio dei cationi di sodio attraverso la membrana cellulare. Questa tossina non agisce pesci palla a causa della composizione diversa degli presenti nei loro canali del sodio.

I sintomi dell’avvelenamento da tetradotossina includono formicolio delle labbra, della bocca e del corpo, dovuto all’azione della molecola sull’impulso nervoso. La tossina colpisce il muscolo scheletrico, causando paralisi e, nel peggiore dei casi, la morte per arresto respiratorio.

In conclusione, la tetradotossina rappresenta una minaccia grave per chiunque consumi pesce contaminato da questa pericolosa sostanza. Solo chef altamente specializzati sono in grado di manipolare il pesce in modo che sia sicuro da consumare, permettendo ai commensali di provare un formicolio controllato senza rischi per la salute.

Coefficiente di ripartizione. Esercizi svolti


Il concetto di coefficiente di ripartizione nei sistemi immiscibili

Il rappresenta il rapporto tra la concentrazione di un composto nelle due fasi di una miscela di due liquidi immiscibili che sono in equilibrio. Quando due liquidi immiscibili entrano in contatto e uno contiene un soluto solubile in entrambi, si verifica un fenomeno di migrazione del soluto tra le fasi fino a raggiungere un equilibrio.

Equilibrio e legge di distribuzione di Nernst

Nel caso in cui esista una differenza di solubilità del soluto nei due liquidi, il soluto si sposterà nella fase in cui è più solubile fino a raggiungere uno stato di equilibrio. Questo equilibrio è regolato dalla costante Ka,b, ottenuta dal rapporto tra la solubilità del soluto nei liquidi a e b secondo la : Ka,b = [S]a/[S]b. Questo coefficiente è noto anche come coefficiente di distribuzione.

Significato e applicazioni del coefficiente di ripartizione

Il coefficiente di ripartizione è fondamentale in settori come quello farmaceutico e ambientale. Per esempio, nel campo farmaceutico, permette di studiare come un farmaco si distribuisca in modo selettivo tra due fasi, con conseguenze suoi effetti fisiologici. In ambito ambientale, aiuta a comprendere come sostanze inquinanti possano accumularsi negli organismi attraverso processi come la biomagnificazione.

Le tecniche cromatografiche sfruttano il coefficiente di ripartizione per prevedere i tempi di ritenzione degli analiti. Questo parametro è cruciale anche nelle tecniche estrattive, dove permette di separare una specie utilizzando solventi diversi.

Per valutare l’efficienza di un’, si utilizza la formula: E = 100K/[K+ (Vaq/Vorg)]

Il volume dell’acqua e il volume del solvente organico giocano un ruolo fondamentale nell’efficacia del processo estrattivo.

Esercizi di separazione con estrazione liquido-liquido

La tecnica dell’estrazione liquido-liquido viene utilizzata per separare efficacemente i soluti tra due fasi liquide immiscibili. Il processo si basa sul coefficiente di ripartizione K, definito come il rapporto tra le concentrazioni di una sostanza in soluzione in due fasi diverse.

Iodio tra acqua e solfuro di carbonio

Per esempio, consideriamo il coefficiente di ripartizione dello iodio tra acqua e solfuro di carbonio, che è pari a 650. Supponiamo di mescolare 50.0 mL di una soluzione acquosa di iodio 0.10 M con 10.0 mL di solfuro di carbonio. Dopo la separazione, la concentrazione di iodio in acqua risulterà essere di 0.000763 M.

Efficienza dell’estrazione

In un altro scenario, un campione d’acqua contiene 10 mg di un pesticida alogenato e 10 mg di un erbicida ionico, che possono essere separati tramite estrazione con toluene. Sapendo che il coefficiente di ripartizione tra toluene e acqua è 50, possiamo calcolare l’efficienza dell’estrazione.

– Nel primo caso, con 20 mL di acqua e 10 mL di toluene, l’efficienza risulta essere del 96.2%.
– Nel secondo caso, con 20 mL di acqua e 30 mL di toluene, l’efficienza aumenta al 98.7%.

In generale, per soluti con un piccolo coefficiente di ripartizione, effettuare estrazioni multiple può migliorare l’efficienza della separazione.

Questi esercizi illustrano l’importanza dei coefficienti di ripartizione e delle proporzioni tra le fasi nel processo di estrazione liquido-liquido per ottenere una separazione efficace dei soluti.

Polimeri termoplastici e termoindurenti a confronto

Differenze tra Polimeri Termoplastici e Termoindurenti

I polimeri termoplastici e termoindurenti si distinguono principalmente per il loro comportamento durante il riscaldamento. I polimeri termoplastici, come il nome suggerisce, diventano morbidi quando riscaldati e alla fine si fondono. Ciò avviene a causa della fusione dei cristalli o del raggiungimento della temperatura di transizione vetrosa. Questi polimeri fusi possono essere modellati nello stampo e solidificati nelle forme desiderate, consentendo il riciclaggio e la rimodellazione senza compromettere le proprietà del materiale.

D’altra parte, i polimeri termoindurenti si induriscono con il riscaldamento o l’aggiunta di sostanze chimiche. Sono frequentemente prodotti tramite stampaggio a trasferimento di resina o stampaggio a iniezione di reazione, processo durante il quale avviene la reticolazione tra i polimeri nel materiale, formando legami irreversibili e infrangibili.

Proprietà dei Polimeri Termoindurenti e Termoplastici

I polimeri termoindurenti risultano altamente resistenti alla , al calore e allo scorrimento meccanico dopo il processo iniziale di termoformatura. Questi materiali sono adatti per componenti che richiedono elevate proprietà di resistenza al peso, tolleranze ristrette ed esposizione al calore. Anche se esposti a temperature elevate, i polimeri termoindurenti non si fondono come i polimeri termoplastici.

Classificazione dei Polimeri

I polimeri possono essere classificati in base al tipo di processo di polimerizzazione attraverso il quale sono stati ottenuti, come poliadizione e policondensazione, e in base alla loro struttura, che può essere lineare, ramificata o reticolata.

Differenze tra i Polimeri

Le differenze tra polimeri termoplastici e termoindurenti possono essere visualizzate in una tabella che confronta le diverse proprietà dei due tipi di polimeri quando sono sottoposti a riscaldamento.

Proprietà quando sono sottoposti a riscaldamento

– Polimeri Termoindurenti: In opportune condizioni di temperatura e/o in presenza di particolari sostanze, si trasformano in materiali rigidi, insolubili e infusibili a causa delle di reticolazione che avvengono fra le catene polimeriche.

– Polimeri Termoplastici: Diventano morbidi quando riscaldati e possono essere fusi per essere modellati, mantenendo la possibilità di riciclaggio e rimodellaggio senza compromettere le proprietà del materiale.

Differenze tra polimeri termoplastici e termoindurenti

I polimeri termoplastici e termoindurenti sono materiali plastici che si distinguono per la loro struttura molecolare e le proprietà che ne derivano. I polimeri termoplastici sono composti da legami deboli che consentono loro di essere fusi e di mantenersi solidi ripetutamente, mentre i polimeri termoindurenti presentano legami forti, covalenti o ionici, che li rendono permanentemente rigidi dopo la solidificazione.

Vantaggi e svantaggi dei polimeri termoplastici e termoindurenti

I polimeri termoindurenti vantano alta resistenza alle sostanze chimiche e stabilità termica, mentre i termoplastici si distinguono per la durezza e la possibilità di essere riciclati. Tuttavia, i termoindurenti non possono essere riciclati e presentano una maggiore fragilità rispetto ai termoplastici. Entrambi i tipi di polimeri hanno i loro punti di forza e di debolezza a seconda dell’applicazione.

Esempi di polimeri termoplastici e termoindurenti

Tra gli esempi di polimeri termoindurenti troviamo , resine epossidiche e poliuretani, mentre i polimeri termoplastici includono , polivinilcloruro e . Ognuno di essi è utilizzato in diversi settori industriali in base alle loro caratteristiche specifiche.

Durabilità e resistenza al calore

Una considerazione importante nella scelta tra polimeri termoplastici e termoindurenti è la durabilità e la resistenza al calore. I termoindurenti sono noti per la loro robustezza e resistenza agli urti, mentre i termoplastici sono caratterizzati dalla possibilità di essere riciclati. Tuttavia, i termoindurenti offrono una maggiore stabilità dimensionale e possono essere rinforzati con materiali come carbonio e fibra di vetro per migliorare ulteriormente le loro proprietà strutturali.

In conclusione, la scelta tra polimeri termoplastici e termoindurenti dipende dalle esigenze specifiche dell’applicazione e dalle proprietà desiderate del materiale plastico. Entrambi offrono vantaggi unici e vanno valutati attentamente in base al contesto di utilizzo.

Cromo (III): reazioni

Il (III), scoperto nel 1797 da Louis Nicolas Vauquelin, è un metallo di transizione con numero di ossidazione +3 che partecipa a diverse reazioni, tra cui ossidazione e .

La Chimica del Cromo (III)

Il cromo è un metallo di transizione con configurazione elettronica [Ar] 3d^5 4s^, e può presentare numeri di ossidazione che vanno da +6 a -4.

del Cromo (III) in Soluzione

Il cromo (III) in soluzione acquosa forma un complesso esacoordinato [Cr(H2O)6]^3+ che agisce come acido, rilasciando un idrogeno all’acqua. Questo complesso conferisce alla soluzione una colorazione verde ed è conosciuto come esaacquocromo (III).

Reazioni del Cromo (III) con le Basi

In presenza di una base, il Cromo (III) reagisce formando un complesso neutro poco solubile in acqua. Se c’è un eccesso di base, il complesso neutro reagisce ulteriormente producendo un complesso meno stabile.

Ossidazione e Riduzione

Il complesso esaidrossocromato (III) può essere ossidato a cromo (VI) in presenza di perossido di idrogeno, dando origine a cromato di colore giallo. Al contrario, il complesso può essere ridotto, ad esempio in presenza di zinco, formando un complesso meno stabile di colore blu.

Altre Reazioni del Cromo (III)

Trattando il complesso esaidrossocromato (III) con un acido si può formare l’esaacquocromo (III). Inoltre, in presenza di ammoniaca si possono formare complessi triacquotriamminocromo o esaamminocromo (III). Infine, la presenza di ione carbonato può portare alla formazione di un complesso poco solubile in acqua.

Il cromo (III) è coinvolto in una varietà di reazioni complesse che sono di interesse nella chimica di coordinazione e nell’ chimica.

Acido di Lewis: calcolo del pH

Il ruolo degli acidi di Lewis e delle basi in chimica

Acido di Lewis e Base: una breve introduzione

Un acido di Lewis è una sostanza in grado di accettare un doppietto elettronico da una base, mentre una base è una sostanza capace di donare un doppietto elettronico a un acido. Questa definizione è stata introdotta successivamente alla teoria di Arrhenius sugli acidi e le basi, la quale sosteneva che gli acidi sono sostanze che rilasciano ioni H+ e le basi sono sostanze che rilasciano ioni OH- in soluzione.

L’evoluzione delle teorie sugli acidi e le basi

La teoria di Arrhenius, però, non spiegava completamente il comportamento di specie come l’ammoniaca. È stato solo nel 1923 che la teoria di Brønsted–Lowry ha ampliato il concetto di acidi e basi, cercando di spiegare l’acidità e la basicità di varie sostanze. Successivamente, altre teorie come quella di Pearson sono state sviluppate per spiegare il comportamento di composti particolari.

Comportamento degli acidi di Lewis in acqua

Quando un sale contenente un metallo di transizione viene disciolto in acqua, si formano colorati in cui l’acqua agisce da legante. Gli ioni dei metalli di transizione possono presentarsi come M2+ (ad esempio Fe2+, Co2+ e Cu2+) o come M3+ (ad esempio Al3+, V3+, Cr3+ e Fe3+), formando complessi come [M(H2O)6]2+ e [M(H2O)6]3+ rispettivamente.

L’acquoione si idrolizza in acqua, rilasciando un ione H+ da una delle molecole di acqua a cui il metallo è coordinato, formando [M(H2O)5OH]2+ e [M(H2O)5OH]3+ rispettivamente, insieme all’ione H3O+.

Impatto degli acidi di Lewis sul di una soluzione

Per comprendere l’influenza degli acidi di Lewis sul pH di una soluzione, possiamo considerare il cloruro di ferro (III) come esempio. Quando il cloruro di ferro (III) si dissolve in acqua, si forma Fe3+ e 3 Cl-. I cationi metallici degli elementi di transizione tendono ad idratarsi, formando complessi come [Fe(H2O)6]3+, in cui le molecole di acqua sono legate al ferro tramite un di coordinazione utilizzando il doppietto elettronico solitario.Il tra l’ossigeno e l’idrogeno influenza gli elettroni di legame, facendo sì che gli atomi di idrogeno acquisiscano una parziale carica positiva maggiore. Questo porta gli atomi di idrogeno a comportarsi come acidi, donando un protone all’acqua secondo l’equilibrio:
[Fe(H2O)6]3+ + H2O ⇌ [Fe(H2O)5 OH]2+ + H3O+,

dove la costante di equilibrio Ka è dell’ordine di 10^-4. Il complesso esaacquoferro (III) agisce da acido e determina il pH della soluzione in base alla sua concentrazione.

pH di un acido di Lewis

Per calcolare il pH di una soluzione contenente 24,0 g di FeCl3 disciolti in 230 mL di acqua, con Ka di [Fe(H2O)6]3+ = 8.9 × 10^-4:

– Moli di FeCl3 = moli di Fe3+ = 24,0 g / 162,2 g/mol = 0,148
– [Fe3+] = [Fe(H2O)6]3+ = 0,148 / 0,230 L = 0,643 M

All’equilibrio: [Fe(H2O)6]3+ = 0,643 – x
[Fe(H2O)5 OH]2+ = [H3O+] = x

Calcolando Ka = 8,9 × 10^-4 come [(x)(x)] / 0,643 – x, si ottiene x = [H3O+] = 0,024 M. Di conseguenza, il pH della soluzione risulta essere ,6.

Saccarosio: struttura, reazioni, usi

Il Saccarosio: Struttura e Proprietà

Il saccarosio, comunemente noto come zucchero da tavola, è un disaccaride con formula C12H22O11, appartenente alla famiglia dei carboidrati. Si presenta sotto forma di cristalli solidi altamente solubili in acqua, con una solubilità di circa 2000 g/L a 25°C, grazie ai legami polari presenti nella molecola.

Composizione del Saccarosio

Essenzialmente composto da una molecola di α-D- e una molecola di β-D-, il saccarosio è legato da un glicosidico tra il carbonio anomerico del glucosio e il carbonio 2 anomerico del fruttosio.

La condensazione delle due unità monomeriche, con l’eliminazione di una molecola d’acqua, forma il legame 1,2-glicosidico che costituisce il disaccaride.

Proprietà e Reattività

Il saccarosio è un incavo zucchero non riducente, poiché non possiede anomeri liberi capaci di convertirsi in gruppi carbonilici e quindi non reagisce con il liquido di Tollens né subisce mutarotazioni.

A temperature elevate, intorno ai 160°C, il saccarosio subisce la , con la formazione di tre principali prodotti: caramellana, caramellene e caramellino, che risultano da processi di disidratazione e polimerizzazione.

Potere Ottico

Grazie alla presenza di atomi di carbonio asimmetrici, il saccarosio mostra attività ottica con un potere rotatorio di +66.5°, indicando una rotazione destrorsa della luce polarizzata. Dalla rottura del legame glicosidico, si ottiene una miscela di glucosio e fruttosio, detta zucchero invertito, con potere rotatorio di -19.5°.

Applicazioni del Saccarosio

Il saccarosio trova impiego nei razzi a propellente solido, dove viene utilizzato come componente nell’ossidante. In questi contesti, il saccarosio contribuisce alle fasi di combustione e propulsione.

In conclusione, il saccarosio, con la sua struttura e proprietà uniche, gioca un ruolo significativo in diverse applicazioni industriali, oltre al suo comune utilizzo come dolcificante.Il nitrato di potassio, noto anche come salnitro, partecipa a una reazione con il saccarosio secondo la seguente equazione chimica:

C12H22O11 + 6 KNO3 → 9 CO + 3 N2 + 11 H2O + 3 K2CO3

Quando viene introdotto acido solforico, un potente disidratante, il saccarosio subisce un processo di disidratazione con formazione di carbonio secondo la reazione:

2 C12H22O11 + 2 H2SO4 + O2 → 22 C + 2 CO2 + 24 H2O + 2 SO2

Il saccarosio è un alimento ad alto contenuto energetico, apportando circa 4 kcal/g senza fornire elementi nutritivi essenziali.

Origini del Saccarosio

Il saccarosio è prodotto dalla canna da zucchero e dalla barbabietola da zucchero. È presente in frutta come il mango, l’ananas e le albicocche, così come in verdure come il mais e alcuni tipi di fagioli. I dolci tradizionali contengono spesso saccarosio, mentre quelli industriali possono avere una maggiore quantità di fruttosio per migliorare la consistenza del prodotto.

Sebbene i cereali siano ricchi di amido, alcuni come il riso integrale contengono anche saccarosio. Quest’ultimo è inoltre presente in molti prodotti da forno e viene aggiunto durante la fase di lavorazione a alimenti come i datteri e la frutta secca.

Il saccarosio viene metabolizzato nell’organismo grazie all’enzima invertasi, che idrolizza il saccarosio in glucosio e fruttosio. Tuttavia, in alcuni soggetti la carenza di invertasi può portare a intolleranza al saccarosio, nonostante l’intolleranza ai carboidrati più comune sia quella al lattosio.

Il consumo eccessivo di saccarosio può contribuire al sovrappeso, all’obesità, all’incremento della glicemia e all’insorgenza di problemi cardiovascolari e diabete.

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