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Processo di elettrolisi in ambiente alcalino.

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L’ rappresenta una metodologia innovativa per generare idrogeno, sfruttando una corrente elettrica per separare acqua in idrogeno e ossigeno, il tutto all’interno di una soluzione alcalina. Questo processo, nato nel XIX secolo subito dopo la creazione della pila da parte del noto scienziato italiano Alessandro Volta, ha visto i pionieristici esperimenti di due chimici britannici, William Nicholson e Anthony Carlisle, che furono i primi a dimostrarne la fattibilità.

Il funzionamento dell’elettrolisi alcalina

Inizialmente, i ricercatori collegarono un estremo della pila a dei fili conduttori di rame, immergendo poi l’estremità opposta in acqua salata, dove il sale fungeva da conduttore. Questo esperimento portava all’accumulo di idrogeno gassoso presso un filo, mentre l’altro filo subiva .

Ciò rende l’elettrolisi alcalina unica nel panorama delle tecnologie disponibili, essendo una delle più antiche ed ampiamente utilizzate commercialmente. Nella prima metà del XX secolo, precisamente fra gli anni ’20 e ’80, ha avuto un ruolo significativo nella produzione di idrogeno per la sintesi dell’ammoniaca. Al giorno d’oggi, i suoi costi competitivi e l’uso efficiente di catalizzatori e separatori la rendono una vantaggiosa.

Meccanismi e reazioni

Il funzionamento degli elettrolizzatori impiegati nell’elettrolisi alcalina avviene a una bassa densità di corrente e si basa su due reazioni fondamentali: la reazione di evoluzione dell’idrogeno (HER) al catodo e la reazione di evoluzione dell’ossigeno (OER) all’anodo. Durante il processo, al catodo, due moli di soluzione alcalina vengono ridotte per generare una mole di idrogeno (H2) e due moli di ioni idrossido (OH–).

Gli ioni idrossido si spostano verso l’anodo, dove, interagendo, producono ossigeno e acqua. La reazione complessiva dell’idrolisi alcalina può essere espressa come segue:
H2O → H2 + ½ O2
Le semireazioni agli elettrodi sono:
anodo: 2 OH– → H2O + ½ O2 + 2e–
catodo: 2 H2O + 2e– → H2 + 2 OH–

Strutture industriali e catalizzatori

Gli elettrolizzatori alcalini consistono essenzialmente di elettrodi, un separatore microporoso e un elettrolita acquoso. Nella pratica, il nichel è comunemente utilizzato come materiale catodico, spesso ricoperto da un catalizzatore come il platino, mentre per l’anodo si impiegano nichel o rame rivestiti con ossidi metallici. Operano generalmente a temperature comprese tra 60 e 80 °C, sia a pressione atmosferica che a pressioni più elevate.

L’adozione di fonti rinnovabili come l’energia solare ed eolica per alimentare l’elettrolisi alcalina favorisce la creazione di idrogeno verde, con un impatto ambientale minimo, contribuendo così a ridurre le emissioni di gas serra.

Il crescente interesse verso sostanze energetiche alternative ha catalizzato lo sviluppo di elettrocatalizzatori efficaci. Le ricerche hanno indirizzato l’attenzione verso nuovi materiali, come gli ossidi metallici, utilizzati per migliorare l’attività catalitica e la stabilità a lungo termine dei sistemi di elettrolisi. L’elettrodeposizione è una tecnica promettente per creare catalizzatori di qualità, con un processo che può essere regolato con precisione per ottenere le migliori prestazioni.

Fonte Verificata

Estrazione di metalli attraverso processi biologici e idrometallurgici.

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La , comunemente definita bioestrazione, sfrutta l’azione di batteri, funghi e alghe per estrarre metalli da vari substrati, trasformandoli in sali solubili in acqua. I tradizionali di idrometallurgia e pirometallurgia, ampiamente utilizzati nel settore metallurgico, sono noti per il loro elevato consumo energetico e per i conseguenti impatti negativi sull’ambiente.

Un approccio sostenibile

La bioidrometallurgia rappresenta un’integrazione tra e metallurgia e offre una tecnica economica e ambientalmente sostenibile per l’estrazione di metalli da minerali e risorse secondarie. L’interesse intorno all’applicazione di per il recupero di risorse dai rifiuti è in crescita, in particolare per favorire la transizione verso un’economia circolare.

Studi recenti hanno cominciato a investigare il potenziale della bioidrometallurgia nell’estrazione di materie prime raramente sfruttate, termasuk elementi delle terre rare e minerali presenti nelle profondità della Terra, nei fondali oceanici e persino nello spazio. Utilizzando organismi viventi, questa tecnologia si propone di affrontare questioni legate all’estrazione dei metalli, alla decontaminazione di effluenti liquidi, alla bonifica dei terreni e alla gestione delle acque acide.

Recupero di metalli preziosi

Rispetto ai metodi non biologici di estrazione, la bioidrometallurgia comporta un’impronta ambientale notevolmente inferiore. Gli organismi naturali e non modificati possono lavorare a temperature e pressioni più basse, riuscendo a estrarre metalli specifici anche da minerali di bassa qualità e materiali di scarto, aumentando così l’efficienza e contribuendo a una riduzione delle emissioni di carbonio.

Questa tecnologia si presenta come una potente soluzione per il recupero di metalli preziosi da fonti a bassa concentrazione, come minerali di scarsa qualità. Può anche rimuovere metalli tossici dall’ambiente, favorendo la bonifica dei suoli contaminati attraverso microrganismi.

I microrganismi principali nel recupero di metalli pesanti sono acidofili, che prosperano in ambienti con pH acido compreso tra 2.0 e 4.0. Soggetti come Acidithiobacillus ferrooxidans, Acidithiobacillus thiooxidans e Leptospirillum ferrooxidans aiutano a solubilizzare i metalli attraverso la secrezione di acidi inorganici e organici in soluzioni acquose.

Negli approfondimenti riguardanti gli elementi delle terre rare (REE), questi sono di particolare rilevanza per le loro applicazioni nelle tecnologie avanzate, come quelle elettriche, ottiche e magnetiche. Pur essendo comuni nella crosta terrestre, la loro estrazione può rappresentare una sfida poiché spesso si trovano come componenti minori in minerali come monazite, xenotime e bastnaesite.

Mentre la loro abbondanza è relativamente alta, la loro bassa concentrazione nei depositi minerali rende complessa la metallurgia estrattiva, che necessita di metodi economici e sostenibili. Soluzioni biologiche potrebbero quindi affiancare o addirittura sostituire gli attuali metodi di estrazione, contribuendo a un processo più sostenibile ed ecologico.

Fonte Verificata

Uranile: un composto di uranio con ossigeno, importante in chimica e nelle sue applicazioni industriali.

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L’uranile è un catione poliatomico caratterizzato da un uranio con numero di ossidazione +6, la cui formula chimica è UO2+. Questo rappresenta la forma più stabile dell’uranio nelle acquose in condizioni aerobiche. La struttura dello ione uranile è lineare e simmetrica, con una lunghezza del legame tra uranio e ossigeno che misura circa 180 picometri.

Struttura dell’uranile

La lunghezza del legame relativamente bassa suggerisce l’esistenza di legami multipli tra uranio e ossigeno all’interno dello ione uranile. L’uranio può anche assumere vari stati di ossidazione, ovvero +3, +4, +5 e +6. In condizioni aerobiche, specialmente a pH ambiente, si osserva che la forma esavalente è quella predominante in soluzione, notoriamente presente come specie solubile. In assenza di un legante altamente chelante, l’uranile pentavalente (UO2+) si dimostra instabile, tendendo alla disproporzione per formare stati a +6 e +4. D’altro canto, l’uranio tetravalente risulta ragionevolmente stabile, anche se può idrolizzare facilmente e formare precipitati di idrossido anche in soluzioni di pH quasi neutro.

In termini di stabilità, l’uranio trivalente risulta meno stabile, ossidandosi rapidamente allo stato +4 in ambienti aerobi. Di conseguenza, l’uranile (VI) è considerato più mobile in ambito ambientale rispetto ad altre specie ridotte come U(IV) o U(V).

La chimica di coordinazione degli attinidi suscita interesse in relazione alle loro strutture molecolari e reattività. Gli ioni esavalenti di tipo AnO22+ – dove An indica uranio, nettunio e plutonio – possono essere generati in mezzi acquosi. Questi ioni mostrano una configurazione lineare O—An—O, con altri ligandi che si coordinano nel piano trasversale a unità.

struttura

La stabilità termodinamica di NpO22+ e PuO22+ è inferiore rispetto a quella dell’uranile, il che implica legami An—O più deboli. Inoltre, la configurazione elettronica dell’uranio è [Rn] 5f3 6d 7s2, evidenziando una disposizione O-U-O estremamente lineare e legami uranio-ossigeno considerati formalmente come legami tripli, derivanti da un legame σ e due legami π, interagendo con orbitali 2p dell’ossigeno e orbitali ibridi 5f e 6d dell’uranio.

Tossicità dell’uranio

Il metallo pesante uranio presenta un notevole rischio per la salute pubblica a causa delle sue proprietà tossiche e radioattive. Con l’avanzamento delle scoperte scientifiche nel campo dell’energia e le attività umane come l’estrazione mineraria, il rilascio di uranio nell’ambiente rappresenta una seria preoccupazione sanitaria, contribuendo alla contaminazione e all’esposizione umana.

tossicità dell'uranio

Il rischio sanitario derivante dall’uranio è accentuato dalla sua chemiotossicità e radiotossicità, quest’ultima particolarmente significativa per l’uranio arricchito, mentre la prima riguarda maggiormente l’uranio naturale e impoverito.

La tossicità chimica dell’uranio è dominata dagli ioni uranile, presenti normalmente disciolti nel suolo e nelle acque. Questi ioni possono formare complessi con anioni come citrato o bicarbonato, nonché con proteine plasmatiche. Si è osservato che composti come il nitrato di uranile, l’esafluoruro di uranio, il fluoruro di uranile e il tetracloruro di uranio risultano particolarmente tossici a causa della loro elevata solubilità in acqua.

Al contrario, i composti scarsamente solubili, quali il tetrafluoruro di uranio e il diuranato di sodio Na2U2O7, presentano tossicità moderata o bassa, mentre quelli meno solubili, come il triossido di uranio e il biossido di uranio, mostrano un potenziale tossico ridotto. È interessante notare che il nitrato di uranile è assorbito dal corpo in quantità sette volte superiore rispetto al biossido di uranio, suggerendo che forme esavalenti di uranio siano più probabili di essere tossiche a livello sistemico.

Ulteriormente, l’uranile è in grado di legarsi a proteine e nucleotidi e può essere assimilato attraverso la presenza di fosfati o carbonati. Ogni forma molecolare dell’uranio presenta attività biologica unica e tossicità differente. L’uranio impoverito, un sottoprodotto dell’arricchimento, risulta altamente tossico per l’uomo sia sul piano chimico che radiologico.

La tossicità dell’isotopo 238U è principalmente biochimica anziché radiochimica. Pertanto, il nitrato di uranile esaidrato emerge come una delle sostanze più tossiche. La varietà delle forme molecolari di uranio ospita una capacità intrinseca di formare strutture complesse che incidono sulla sua tossicità.

L’inalazione, l’ingestione e il contatto diretto con l’uranio possono risultare tossici. Le nanoparticelle possono muoversi nel corpo umano attraverso il moto browniano, attivando meccanismi di trasporto e deposizione. Ciò implica che particelle di dimensioni minori sono più propense a raggiungere l’epitelio del polmone.

Nitrato di uranile

Il nitrato di uranile, con formula UO2(NO3)2 · n H2O, è un composto che si presenta generalmente come un solido giallo idrato, con n che può variare tra 2, 3 e 6. È molto solubile in acqua, etanolo, acetone ed etere etilico, ma non si dissolve in benzene, toluene o cloroformio. A temperatura ambiente, la soluzione acquosa può contenere fino al 56% di sale anidro.

nitrato di uranile

La sintesi del nitrato di uranile avviene attraverso una reazione tra octossido di triuranio e acido nitrico:

U3O8 + 8 HNO3 → 3 UO2(NO3)2 + 2 NO2 + 4 H2O

In forma esaidrata, il nitrato di uranile, se esposto all’ossigeno e a una temperatura compresa tra 600 e 800 °C, genera triossido di uranio (UO3), il quale può essere ulteriormente ridotto a biossido di uranio (UO2) tramite trattamento con idrogeno.

Il nitrato di uranile può decomporre secondo la reazione: 2 UO2(NO3)2 → 2 UO3 + 4 NO2 + O2. Grazie alla sua facilità di sostituzione con altri anioni, è spesso utilizzato come materiale di partenza per la sintesi di altri composti di uranile. Per esempio, in presenza di ossalato, porta alla formazione di ossalato di uranile (UO2C2O4).

Inoltre, il nitrato di uranile, insieme all’acetato di uranile, trova applicazione come colorante nella microscopia elettronica. È un composto caratterizzato da alta tossicità e proprietà ossidanti, potendo avere effetti avversi su organi come reni, fegato, polmoni e cervello.

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Cinque attività pratiche sulla resa percentuale.

La resa percentuale di una viene calcolata come il rapporto tra la quantità di prodotto realmente ottenuto e quella teoricamente prevista, espresso in percentuale. La rappresenta la massima quantità di prodotto che è possibile ottenere in una reazione, calcolata secondo la stechiometria della reazione bilanciata. La , d’altro canto, indica il reale prodotto ottenuto, che di solito è inferiore rispetto alla resa teorica.

Concetti chiave sulla resa

Quando la resa effettiva uguaglia la resa teorica, il rapporto tra le due è , il che traduce in una resa percentuale del 100%. Per calcolare la resa teorica, è fondamentale disporre di informazioni sui reagenti e sui prodotti, oltre a sapere quali siano i reagenti limitanti nel caso ci sia un eccesso di uno di essi.

La resa teorica rappresenta quindi la quantità massima di prodotto ottenibile in base al reagente limitante. Tuttavia, la resa effettiva tende a essere inferiore a quella teorica. Questo può accadere a causa di diversi fattori, come reazioni parziali o perdite durante il processo di purificazione, che possono influenzare la quantità finale di prodotto recuperato.

Il reagente limitante e la sua importanza

Il reagente limitante è definito come quel reagente che, in quantità inferiori rispetto agli altri, determina la massima resa teorica e, di conseguenza, anche la resa percentuale della reazione. Ad esempio, supponiamo di voler preparare dei sandwich: con 28 fette di pane e 11 fette di formaggio, si possono realizzare 11 sandwich. In questo caso, il formaggio è il reagente limitante, mentre il pane resta in eccesso.

Analizzando una reazione chimica come AgNO3 + BaCl2 → Ba(NO3)2 + 2 AgCl, se abbiamo 2 moli di nitrato di argento e una mole di cloruro di bario, la resa teorica prevede un prodotto di 1 mole di nitrato di bario e 2 moli di cloruro di argento. Se, invece, si utilizzano 28 moli di nitrato di argento e 11 moli di cloruro di bario, si otterranno 11 moli del nitrato di bario e 22 moli del cloruro di argento, con 6 moli di nitrato di argento che rimangono in eccesso.

Esempi pratici di calcolo della resa percentuale

Consideriamo la reazione di decomposizione termica CaCO3 → CaO + CO2, nella quale si ottengono 13.1 g di CaO da un inizio di 24.8 g di carbonato di calcio. Le moli di carbonato di calcio, calcolate come 24.8 g / 100.09 g/mol, risultano pari a 0.248. Poiché il rapporto tra carbonato di calcio e ossido di calcio è 1:1, le moli teoriche di CaO sono anch’esse 0.248.

La massa teorica di CaO si calcola moltiplicando 0.248 mol per 56.08 g/mol, dando come risultato 13.9 g. La resa percentuale quindi risulterà 13.1 · 100 / 13.9 = 94.2 %.

In un altro caso, per la reazione CuSO4 + Zn → ZnSO4 + Cu, se 1.274 g di solfato di rame viene fatto reagire con eccesso di zinco, si ottiene 0.392 g di rame metallico. Le moli di solfato di rame sono 1.274 g / 159.609 g/mol = 0.007086. Poiché lo zinco è in eccesso, le moli teoriche di rame metallico, sempre in un rapporto di 1:1, rimangono 0.007086.

La massa di rame prodotta sarà quindi 0.007086 mol · 63.55 g/mol = 0.5075 g, e la resa percentuale si calcola come 0.392 g · 100 / 0.5075 g = 77.2 %.

Infine, per la reazione 2 Al + 3 Cl2 → 2 AlCl3, se uniamo 2.80 g di alluminio con 4.15 g di cloro, otteniamo 4.40 g di cloruro di alluminio. Le moli di Alluminio si calcolano come 2.80 g / 26.981538 g/mol = 0.104. Le moli di Cl2 necessarie sono 0.104 · 3/2 = 0.156, mentre le moli disponibili di Cl2 corrispondono a 4.15 g / 70.906 g/mol = 0.0585, il che indica che il cloro è il reagente limitante.

Il rapporto stechiometrico tra cloro e cloruro di alluminio è di 3:2, quindi le moli teoriche di cloruro di alluminio sarebbero 0.0585 · 2/3 = 0.0390. La massa teorica di cloruro di alluminio sarà quindi 0.0390 mol · 133.34 g/mol = 5.20 g, portando a una resa percentuale di 4.40 · 100 / 5.20 = 84.6 %.

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Trattamento di acqua attraverso il processo di elettrodialisi in direzione opposta.

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L’elettrodialisi inversa (RED, che sta per Reverse Electrodialysis) rappresenta una tecnologia innovativa. Essa si basa sull’utilizzo di membrane a scambio ionico, ossia membrane anioniche e cationiche, disposte tra due elettrodi per estrarre energia elettrica dai gradienti di salinità.

Funzionamento dell’elettrodialisi inversa

Il principio alla base dell’elettrodialisi inversa deriva dalla differenza di salinità tra due soluzioni. Questo contrasto, filtrato attraverso una membrana a scambio ionico, genera un gradiente di potenziale elettrico. Questo potenziale spinge gli ioni: gli anioni transitano attraverso le membrane a scambio cationico (CEM), mentre i cationi attraversano quelle a scambio anionico (AEM), dalla zona di alta concentrazione a quella di bassa concentrazione.

In seguito a questa migrazione ionica, gli elettrodi trasformano il flusso di ioni in corrente elettrica, grazie a reazioni di ossidoriduzione o alla scissione dell’acqua. In tal modo, l’elettrodialisi inversa diventa un metodo promettente per catturare l’energia derivante dai gradienti di salinità, anche noti come energia blu.

Struttura del sistema di elettrodialisi inversa

Un sistema di elettrodialisi inversa è composto da membrane a scambio ionico alternative, che facilitano il contatto tra soluzioni ad alta e bassa salinità. Le membrane, caricate rispettivamente per attrarre anioni e cationi, permettono agli ioni di muoversi in direzioni opposte. Tale movimento genera poli elettrici, simili a quelli presenti in una batteria, e nel processo produce energia elettrica.

In particolare, ogni metro cubo di acqua dolce può generare circa .4 MJ di energia se combinato con una quantità pari di acqua di mare. Se, invece, si utilizza un eccesso di acqua di mare, la produzione energetica può superare i 2 MJ. La potenza elettrica può essere regolata controllando il flusso d’acqua e massimizzando l’ delle risorse idriche disponibili.

Caratteristiche delle membrane

Le membrane utilizzate in questo processo, come quelle a scambio anionico (AEM), possiedono positivi attaccati a una matrice polimerica. Questi gruppi consentono il passaggio selettivo degli anioni, rendendo necessaria una conduttività elettrica ottimale, stabilità termica e bassa resistenza. Tuttavia, ottenere una perfetta selettività in queste membrane è sfidante, poiché il rigonfiamento dovuto a un eccessivo contenuto d’acqua può comprometterne la stabilità.

La selettività delle membrane è cruciale, specialmente in acque che non contengono solo sodio e cloruro, riducendo le performance energetiche. Anche l’assenza di ioni multivalenti può influenzare negativamente i risultati. Pertanto, la ricerca continua a focalizzarsi miglioramento delle membrane, affrontando problemi come l’incrostazione e aumentando la loro efficienza energetica.

Elettrodi e loro importanza

Recenti studi hanno esplorato sistemi di elettrodi più sostenibili e convenienti. Gli elettrodi a maglie di titanio, rivestiti con ossidi metallici misti o materiali carboniosi, sono attualmente tra i più utilizzati. Per garantire un funzionamento stabile nelle applicazioni su larga scala, gli esperti si stanno orientando verso elettrodi asimmetrici, in cui un’area del catodo è più piccola rispetto all’anodo. Ciò ha dimostrato di ridurre le perdite di energia e stabilizzare le reazioni degli elettrodi.

In alternativa, gli elettrodi a flusso a base di carbonio offrono vantaggi economici e ambientali. Questi sistemi usano l’adsorbimento elettrostatico per sostenere il trasporto di ioni. Tuttavia, la saturazione può richiedere una ritrasmissione della polarità, portando a cicli di carica e scarica intermittenti. Anche qui, il miglioramento della conduttività è un obiettivo chiave per l’efficienza del sistema.

Il RED stack

Il cuore di un impianto di elettrodialisi inversa è il RED stack, costituito da elettrodi, membrane, piastre terminali e distanziatori. Le soluzioni saline, sia ad alta che a bassa concentrazione, scorrono alternativamente attraverso il sistema, permettendo agli ioni di trasmettere energia elettrica. La cura nella scelta degli elettrodi è fondamentale per garantire un’efficienza energetica ottimale, poiché influisce sulla polarizzazione della concentrazione e sulla perdita di tensione.

L’evoluzione della struttura e dei materiali degli elettrodi può migliorare sostanzialmente la loro capacità generativa e la lunga durata del sistema. Questo progresso è essenziale per la realizzazione di applicazioni pratiche su scala industriale, materiali specifici vengono impiegati per garantire stabilità e sostenibilità.

Modalità di flusso

Per ottimizzare ulteriormente le prestazioni dell’elettrodialisi inversa, sono disponibili diverse modalità di flusso. I sistemi a più stadi mostrano benefici rispetto a soluzioni a stadio singolo. Queste configurazioni permettono di applicare correnti diverse a ciascun elettrodo, aumentando la potenza in uscita e migliorando l’efficienza globale. Pertanto, i sistemi a più stadi possono sfruttare al meglio risorse idriche ad alta salinità, massimizzando l’energia prodotta.

Una potenza elettrica netta ottimale, stimata in 4.98 kW, è raggiungibile con soluzioni tra 5 M e 0.05 M in configurazioni a 12 stadi, mentre 2.04 kW possono essere prodotti con sette stadi per concentrazioni di 2 M e 0.05 M. Questo approccio può contribuire significativamente alla crescita dell’efficienza energetica nel settore della produzione di energia rinnovabile.

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Carvone: nuovo studio rivela le sue proprietà benefiche

Il , un chetone monoterpenico monociclico, è presente in abbondanza negli di cumino, aneto e menta verde. Questo composto è caratterizzato da proprietà antisettiche ed è impiegato come repellente per zanzare e come agente aromatizzante nell’industria alimentare.

La secrezione del carvone dalle piante aromatiche varia in base alla specie, alle parti utilizzate e ai di estrazione. La sua formula chimica è C10H14O, e il nome I.U.P.A.C. è -metil-5-(1-metilenil)-2-cicloesen-1-one. Il carvone si presenta come un liquido limpido e incolore, con una temperatura di ebollizione di 231 °C e una temperatura di fusione di 25.2 °C. È scarsamente solubile in acqua fredda, ma solubile in composti organici come etanolo, etere etilico e cloroformio.

Struttura e forme enatiomeriche

Il carvone possiede un asimmetrico e si esprime in due forme enantiomeriche, che presentano le stesse proprietà chimiche e fisiche, ma differiscono nel potere ottico rotatorio: + 61° per l’enantiomero S e – 61° per l’enantiomero R. Questi enantiomeri generano risposte biologiche diverse, soprattutto in relazione ai recettori olfattivi, con l’enantiomero S che emana un odore di semi di cumino e l’enantiomero R un profumo di menta.

Sintesi e produzioni

Il carvone può essere estratto da fonti naturali oppure sintetizzato. La forma destrogira si ottiene per distillazione frazionata dell’olio di cumino, mentre la forma levogira richiede un trattamento con solfuro di idrogeno seguito da una reazione con idrossido di potassio. La maggior parte del carvone commercialmente disponibile è prodotta attraverso il limonene, utilizzando metodi sintetici che prevedono reazioni con catalizzatori come il palladio (II) o sali di rame in acido acetico o metanolo.

Inoltre, la biosintesi del carvone nel frutto del cumino avviene tramite un percorso in tre stadi che inizia dal geranil difosfato. Diversi metodi sintetici conducono a rese variabili, inclusi processi che utilizzano biocatalizzatori come il lievito di birra per ottenere diidrocarvone in forme pure.

Proprietà e applicazioni

Studi scientifici hanno evidenziato che il carvone possiede numerose proprietà farmacologiche, incluse attività antibatteriche, antimicotiche e antinfiammatorie. Inoltre, il carvone ha mostrato effetti neuroprotettivi e potenziale nel trattamento di disturbi come la depressione e le convulsioni. La sua capacità di penetrare nelle cellule batteriche contribuisce alla sua azione antibatterica, rendendolo utile anche in settori come la disinfezione degli imballaggi alimentari e dei dispositivi medici.

Queste proprietà hanno spinto l’adozione del carvone in vari prodotti industriali, tra cui film di acido polilattico, rivestimenti antibatterici e nanoparticelle per l’agricoltura, impiegato nella protezione delle colture e come agente antigermogliante per la conservazione dei tuberi.

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Ecco dove si trovano, come funzionano e quali sono le novità

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Attivazione dei Tutor 3.0

A partire dal 7 marzo 2025, sono stati implementati i Tutor 3.0 su alcune tratte della rete autostradale italiana. Questo innovativo sistema, sviluppato da Autostrade per l’Italia e dalla Polizia di Stato, mira a migliorare la sicurezza stradale.

Rete di Monitoraggio

I Tutor 3.0 sono stati installati in 26 tratte, ampliando la copertura a 178 sezioni autostradali per un totale di circa 1800 km. A differenza degli autovelox, i Tutor calcolano la velocità media dei veicoli lungo un tratto di strada.

Funzionamento del Sistema

Il funzionamento si basa su una rete di sensori e telecamere montate su portali autostradali. Questi dispositivi fotografano i veicoli e registrano il loro passaggio in due punti distinti. Se la velocità media supera i limiti consentiti, il sistema invia i dati alla Polizia Stradale per controlli e possibile emissione di multe.

Vantaggi della Tecnologia

Il Tutor 3.0 offre maggiore accuratezza nella scansione delle immagini e nelle misurazioni rispetto alle versioni precedenti, contribuendo così a un monitoraggio più preciso e a una maggiore sicurezza sulle autostrade.

dove sono, come funzionano e cosa cambia

A partire dal 7 marzo 2025, su alcune tratte della rete autostradale italiana, sono stati gradualmente attivati i nuovi Tutor 3.0, un sistema di controllo della velocità più avanzato e preciso rispetto alle versioni precedenti, sviluppato da Autostrade per l’Italia e dalla Polizia di Stato con l’obiettivo di migliorare la sicurezza autostradale. è stata installata in 26 tratte, portando la copertura complessiva a 178 sezioni autostradali per un totale di circa 1800 km. La funzione principale del Tutor è quella di rilevare la velocità media dei veicoli lungo un tratto di strada, a differenza degli autovelox che misurano la velocità istantanea in un singolo punto. Il suo funzionamento si basa su una rete di sensori e telecamere installate su portali autostradali, che fotografano i veicoli e registrano il loro passaggio in due punti distinti. Se la velocità media calcolata supera i limiti consentiti, il sistema invia automaticamente le informazioni alla Polizia Stradale per la verifica e l’eventuale emissione della multa. Il nuovo sistema si distingue per una maggiore accuratezza nella scansione delle immagini e nella…

Per approfondire l’argomento sulla fonte originale

Come agisce un disgorgante per sturare i tubi di scarico del lavandino?

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Ostruzioni nei tubi e utilizzo di disgorganti

Quando laviamo i piatti, piccoli frammenti di cibo e impurità possono accumularsi nei , causando ostruzioni che rallentano o bloccano il deflusso dell’acqua. In tali situazioni, si ricorre frequentemente a disgorganti chimici per risolvere il problema in breve tempo.

Meccanismo di azione dei disgorganti

I disgorganti grazie a sostanze altamente alcaline, come la soda caustica o la candeggina, e sostanze acide, come l’acido solforico. Queste sostanze possiedono un pH estremo, creando un ambiente corrosivo in grado di dissolvere ostruzioni composte da materiali organici come residui di cibo, grasso e capelli. La reazione chimica di idrolisi scompone questi residui, ripristinando il flusso dell’acqua in pochi istanti.

Aggressività chimica come chiave del successo

L’efficacia di uno sgorgante è legata alla sua aggressività chimica, che consente di affrontare e risolvere rapidamente il problema delle ostruzioni nei tubi.

Come funziona un disgorgante e come riesce a sturare i tubi di scarico del lavandino?

Quando laviamo i piatti può capitare che piccoli frammenti di cibo e altre impurità si accumulino nei tubi, formando ostruzioni che rallentano o bloccano completamente il deflusso dell’acqua. Spesso, in questi casi, ricorriamo a un chimico, che, come per magia, libera le tubature in pochi minuti. Ma in quale modo funziona esattamente? Come fa lo sgorgante a fare “svanire nel nulla” l’otturazione? La risposta sta nella chimica: i disgorganti contengono sostanze altamente alcaline ( forti, come soda caustica – idrossido di sodio – o candeggina – ipoclorito di sodio) o altamente acide (come l’acido solforico). Il loro pH estremo crea un ambiente corrosivo capace di dissolvere le ostruzioni perlopiù composte da materiale organico come residui di cibo, grasso e capelli. In pochi istanti, la reazione chimica, chiamata idrolisi, scompone in pezzetti più piccoli questi residui, ripristinando il normale flusso dell’acqua.

La forza di uno sgorgante sta nella sua aggressività chimica

Quando il si ottura, nella maggior parte dei casi possiamo risolvere il problema…

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Perché i CD della PlayStation 1 avevano il retro nero? Scopriamo il vero motivo di questa scelta.

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Caratteristiche dei dischi PlayStation 1

I dischi dei giochi per 1 si distinguevano per il loro di colore nero. non era solo estetica, ma serviva anche come misura anti-pirateria, conferendo ai CD un aspetto unico e riconoscibile.

Transizione dalle cartucce ai CD

Prima del lancio della PS1, i videogiochi erano prevalentemente disponibili in formato cartuccia, rendendo la pirateria un problema marginale grazie alla difficoltà di duplicazione. Tuttavia, con l’avvento del CD, la situazione cambiò drasticamente. I CD, più facili da copiare, portarono all’emergere di una rete di prodotti contraffatti che minacciava il mercato dei videogiochi.

Misure anti-pirateria di Sony

Per combattere il fenomeno della pirateria, Sony decise di modificare il film protettivo in plastica dei dischi. Questa decisione mirava a rendere più difficile la copia non autorizzata dei giochi, garantendo così una maggiore protezione contro la contraffazione e mantenendo l’integrità del mercato dei videogiochi per la nuova console.

Perché i CD della PlayStation 1 erano di colore nero sul retro? Il vero motivo

Qualunque appassionato di videogiochi ricorderà che i dischi dei giochi PlayStation 1 una caratteristica unica: il loro retro era di colore nero. Questa scelta non fu casuale: il lato colorato forniva a questi CD un tocco unico e distintivo e Sony dichiarò anche questo era a un sistema anti-pirateria.

Prima della PS1 infatti la maggior parte dei videogiochi era disponibile solo sotto forma di cartuccia: in questo caso, vista la complessità nel duplicare illegalmente questo supporto, il fenomeno della pirateria era sostanzialmente assente. In quegli anni però le potenzialità del CD erano sotto agli occhi di tutti e quindi anche Sony decise di utilizzare proprio questo supporto per la sua nuova console. Il problema è che questo, a differenza delle cartucce, era molto più accessibile e semplice da masterizzare, e quindi in pochissimo tempo iniziò a svilupparsi una fitta rete di prodotti contraffatti.

Come dichiarato da Sony in un video promozionale dell’epoca, per evitare che ciò accadesse anche ai propri dischi, decise di modificare il film protettivo in plastica presente nella parte…

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Quando Vincenzo Peruggia rubò la Gioconda dal Louvre

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Il furto della Gioconda: come fece Vincenzo Peruggia a rubarla

Il furto della è avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1911. Vincenzo , un italiano dipendente del Louvre, si era introdotto nel museo per rubare il celebre dipinto di Leonardo da Vinci. La sua motivazione principale era quella di riportare l’opera in Italia, considerandola un patrimonio nazionale. Il furto è stato realizzato con astuzia: Peruggia nascose la tela sotto il suo cappotto e riuscì a uscire indisturbato dal museo. Le indagini successive hanno messo in luce dubbi riguardo al ruolo di Peruggia, suggerendo che potesse essere stato incastrato da un mercante d’arte specializzato in falsi. Questo ha aperto a congetture sulle reali dinamiche del furto e sui possibili complici coinvolti nella vicenda.

La verità dietro il colpo d’arte

Nonostante il passare del , il mistero che circonda il furto della Gioconda rimane irrisolto. approfondite degli atti processuali e ricerche storiche continuano a stimolare l’interesse per celebre opera d’arte. La figura di Peruggia si è evoluta da ladro a potenziale vittima di un intrigo più grande, alimentando leggende e speculazioni sulla verità dietro uno dei furti d’arte più iconici della storia.

la volta in cui Vincenzo Peruggia la rubò dal Louvre

Il colpo con cui è stata rubata la Gioconda di Leonardo da Vinci è ancora oggi al centro di ipotesi affascinanti: Vincenzo Peruggia, un italiano che lavorava nel celebre museo, è passato alla storia come il ladro ufficiale che ha compiuto il furto d’arte più famoso della storia, avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1911, per riportare la Monna Lisa sul suolo natio di Leonardo, in Italia. Ma l’analisi degli atti del processo e ulteriori congetture sembrano evidenziare che Peruggia potrebbe essere stato incastrato, forse da un mercante d’arte specializzato in falsi d’autore. Come sono andate davvero le cose e qual è la vera storia del furto della Gioconda? Dopo più di un secolo è difficile dirlo con esattezza, ma possiamo provare a ricostruire la vicenda.

Il furto della Gioconda: come fece Vincenzo Peruggia a rubarla

Secondo la ricostruzione dei fatti avvenuta tramite le indagini e l’analisi degli atti del processo, la storia racconta che tutto inizia verso le 7 di mattina del 21 agosto 1911 a Parigi. Un uomo si aggirava per le sale del Louvre: il suo nome era Vincenzo Pietro…

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Uso della pipì come fertilizzante: sì, se trattata da aziende specializzate.

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Trasformazione dell’urina in fertilizzante

L’urina può essere trasformata in fertilizzante, sfruttando i principi dell’economia circolare. Considerata un inquinante da smaltire, l’urina contiene azoto, fosforo e potassio, elementi essenziali per la crescita delle piante. caratteristica rende l’urina un’opzione sostenibile per la produzione di concimi. Tuttavia, sebbene la trasformazione sia semplice dal punto di vista chimico, è complessa da realizzare in pratica.

Ricerche e sperimentazioni

Ricercatori e tecnici di tutto il mondo, tra cui l’Istituto Federale Svizzero di Scienza e Tecnologia Acquatiche e l’Università di Henan, stanno lavorando da oltre dieci anni per sviluppare efficaci di raccolta e separazione dell’urina dalle altre deiezioni. Questi sforzi hanno portato alla creazione di quello che viene definito il “fertilizzante d’oro”.

Composizione dell’urina e benefici per le piante

L’urina è composta per il 95% di acqua, mentre il restante 5% contiene sostanze organiche e sali minerali. Questi elementi contribuiscono a migliorare la fertilità del suolo e a supportare la crescita vegetale, rendendo l’urina una risorsa preziosa per l’agricoltura sostenibile.

È possibile utilizzare la nostra pipì come fertilizzante? Sì, se trattata da aziende specializzate

Si, è possibile! Esistono tecniche per trasformare l’urina in fertilizzante, cercando così di sfruttarla al meglio nelle agricole secondo principi di economia circolare. L’urina è un inquinante e va quindi smaltito, ma per composizione chimica è anche una potenziale fonte di azoto, fosforo e potassio, elementi essenziali per le piante, ampiamente utilizzati in agricoltura. Quindi, vista la sua composizione, l’urina può diventare un’opzione sostenibile per ottenere un ottimo concime. Se la soluzione è semplice da un punto di vista chimico è in realtà piuttosto complessa da mettere in pratica. perché ricercatori e tecnici in tutto il mondo stanno sperimentando da oltre 10 anni nuovi metodi per raccoglierla e separarla da altre deiezioni. Per esempio, l’Istituto Federale Svizzero di Scienza e Tecnologia Acquatiche e l’Università di Henan hanno trovato dei modi per trasformare l’urina nel “fertilizzante d’oro”.

Come è fatta la nostra pipì e perché è utile per le piante

La nostra è composta per il 95% di acqua e per il resto di sostanze organiche e sali minerali. Il…

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Roghi sul sarcofago di Chernobyl estinti dal drone, ma persiste la falla alla centrale nucleare.

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Incendi Domati al Sarcofago di Chernobyl

Tutti i roghi sul del reattore 4 della di Chernobyl sono stati domati dopo un incidente avvenuto tra il 13 e il 14 febbraio. Un drone ha provocato un’esplosione che ha creato un foro di 15 m² nel sarcofago esterno. Le autorità hanno confermato che, durante le operazioni di bonifica, non sono stati registrati livelli di radiazioni anomali, come dichiarato dalla IAEA.

Lavori Futuri e Monitoraggio

Nonostante l’incendio sia stato spento, i lavori per riparare lo squarcio nel sarcofago sono ancora necessari. È fondamentale monitorare termicamente l’impianto per prevenire ulteriori incendi. Un team di emergenza, inclusi gli scalatori, rimarrà nella zona per garantire interventi rapidi in caso di ulteriori necessità.

Danni al Rivestimento

Oltre al foro di 15 m², si registrano danni su un’area di 200 metri quadrati all’interno del sarcofago. È essenziale affrontare questi danni per garantire la sicurezza dell’area circostante e prevenire future problematiche.

Domati i roghi sul sarcofago di Chernobyl colpito dal drone, ma resta la falla alla centrale nucleare

Sono stati domati tutti i roghi sul sarcofago del reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina che nella notte tra il 13 e il 14 febbraio è stato colpito da un drone provocando diversi incendi a seguito di una esplosione e un foro di 15 m2 nel sarcofago esterno. Fortunatamente, come segnalato dalle autorità, al momento le fiamme sono state spente e durante tutte le operazioni di bonifica non sono stati registrati livelli di radiazioni al di sopra della norma come confermato dalla IAEA (Agenzia Internazionale per l’ Atomica).

Tuttavia, nonostante gli incendi siano stati domati, il lavoro qui non è finito: sarà necessario sia avviare delle operazioni per riparare lo squarcio sul sarcofago, sia monitorare termicamente l’impianto per essere sicuri che non si inneschino ulteriori roghi. Proprio per questo il team di operatori di emergenza, scalatori inclusi, rimarrà sul posto per poter intervenire tempestivamente in caso di necessità.

Per quanto riguarda i danni al rivestimento, oltre al sopracitato foro, si parla di un’area danneggiata di 200 metri quadrati, all’interno…

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