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Solubilità e pH

Solubilità dei Composti e Variazioni del

Per comprendere le condizioni più favorevoli alla precipitazione dei composti, è cruciale conoscere come varia la loro solubilità in relazione al pH. Calcolare la solubilità di un sale richiede la considerazione di diversi fattori. Ad esempio, prendiamo in esame l’acetato di argento (CH3COOAg), un sale poco solubile in acqua. In presenza di acqua, si verifica l’equilibrio: CH3COOAg (s) ⇄ CH3COO (aq) + Ag+(aq). Questo equilibrio è regolato da Kps che equivale a Kps = [CH3COO ] [Ag+], da cui si ottiene: [CH3COO ] = Kps/ [Ag+] (1).

L’acetato di argento, base coniugata dell’, reagisce con l’acqua seguendo l’equilibrio: CH3COO + H2O ⇄ CH3COOH + OH. L’acido acetico è un acido debole e la sua dissociazione è influenzata dalla Ka, data da Ka = [H+][ CH3COO]/ [CH3COOH], da cui: [CH3COOH] = [H+][ CH3COO]/ Ka (2).

La solubilità s dell’acetato di argento può essere espressa come: s = [Ag+] = [CH3COO ] + [CH3COOH]. Sostituendo i valori di [CH3COO–  ] derivati da (1) e di [CH3COOH] da (2), si ottiene [Ag+] in funzione di Kps, [H+], e Ka.

In generale, per un sale di formula generica MX derivante dall’acido debole HX, la solubilità s in funzione di [H+] è data da: s = [M+] = √ Kps (1 + [H+]/Ka). Si osserva che la solubilità s cresce con l’aumentare di [H+], ovvero con la diminuzione del pH. Quando [H+] = Ka, ossia quando pH = pKa, si ottiene: s = √2 Kps. Per valori bassi di [H+], corrispondenti a pH elevati, la solubilità risulta praticamente indipendente dal pH. Se [H+] ˃ Ka, cioè quando pH ˂ pKa, la solubilità aumenta rapidamente.

In conclusione, la solubilità dei composti è strettamente correlata al pH e alle proprietà acide e basiche dei componenti. Questa relazione offre un’importante prospettiva per comprendere le condizioni di precipitazione dei composti chimici.

Grassi idrogenati e margarine

Grassi idrogenati e margarine: dalla alle condizioni di produzione

I grassi idrogenati, ottenuti trattando oli con idrogeno gassoso e catalizzatori metallici, subiscono un processo chimico che aumenta il rischio cardiovascolare a causa della trasformazione dei legami insaturi. La presenza dell’isomero trans altera la struttura dell’acido grasso con conseguente aumento del rischio cardiovascolare. Tali prodotti sono preferibilmente ottenuti in condizioni di reazione controllate.

Come catalizzatore si utilizza il nichel metallico finemente suddiviso su un supporto di farina fossile. L’utilizzo di idrogeno gassoso molto puro, privo di sostanze nocive come tioli, solfuro di idrogeno, biossido di carbonio, insieme a un controllo della temperatura e dell’agitazione della massa nel corso della reazione, diminuisce il fenomeno dell’.

Inoltre, variazioni di pressione da 1,5 a 5 atm favoriscono l’omogeneità del prodotto finale. Alla fine dell’idrogenazione, i grassi vengono filtrati a caldo, deodorati e, se necessario, deacidificati. L’utilizzo maggiore dei grassi idrogenati si ha nella fabbricazione delle margarine, in miscela con grassi naturali, o negli shortening, prodotti simili alle margarine.

Margarine: composizione e fabbricazione

Le margarine sono acquose stabili di grassi di origine vegetale o animale, diverse dal burro e dal grasso di maiale. Esse devono avere un’acidità libera non superiore all’1%, non contenere coloranti vietati né conservanti nocivi alla salute. La composizione gliceridica delle margarine varia notevolmente, ma in commercio si distinguono due tipi base destinati al consumo diretto o all’uso industriale.

La qualità della margarina dipende principalmente dalla purezza delle materie prime impiegate. La fabbricazione industriale si realizza in impianti a funzionamento continuo e inizia dalla fase acquosa e dalla fase grassa. La fase acquosa, costituita da latte opportunamente inacidito o da latticello, siero o latte in polvere solubilizzato, viene addizionata di piccole quantità di sostanze destinate a migliorare sapore ed aroma del prodotto come cloruro di sodio, , citrato di isopropile.

Alla fase grassa, prima sterilizzata e poi portata alla temperatura di fusione, si aggiungono emulsionanti come mono- e di-, lecitine, coloranti come β carotene, antiossidanti e vitamine A, D, E. Solo successivamente si procede all’emulsionamento delle due fasi, alla refrigerazione e omogeneizzazione.

Queste informazioni forniranno una panoramica completa sulle margarine, dai processi chimici alla produzione, offrendo una comprensione più approfondita di questi prodotti comuni. Questa comprensione più chiara fornirà ai consumatori la consapevolezza necessaria per fare scelte informate riguardo all’uso delle margarine nella loro dieta.

Nomenclatura degli acidi ternari

Nomenclatura degli acidi ternari

La nomenclatura degli acidi ternari può destare confusione a causa delle diverse denominazioni usate, sia secondo le regole IUPAC che secondo la tradizione.

Gli acidi ternari sono composti che contengono idrogeno, ossigeno e un non metallo. La loro formula prevede che gli elementi siano elencati nell’ordine: idrogeno, non metallo, ossigeno. Tali acidi si ottengono mediante l’aggiunta di acqua agli acidi ().

La nomenclatura IUPAC prevede che tutti gli acidi siano chiamati “acido”, seguito dal suffisso “-ico” aggiunto al nome del non metallo. Inoltre, il numero di atomi di ossigeno presenti viene indicato con i prefissi “monosso-“, “diosso-“, “triosso-“, ecc. Infine, si aggiunge tra parentesi il del non metallo.

Ad esempio:
– HNO₃ viene chiamato acido triossonitrico (V).
– HNO₂ viene chiamato acido diossonitrico (III).
– H₃PO₄ viene chiamato acido tetraossofosforico (V).

Per la , gli ossiacidi sono denominati aggiungendo il suffisso “-ico” alla radice del non metallo, tranne per lo zolfo (radice solfor-) e l’azoto (radice nitr-). Nel caso in cui un non metallo formi più di due ossiacidi, si usano i prefissi “ipo-” e “per-” insieme ai suffissi “-oso” e “-ico”.

Ad esempio:
– HClO viene chiamato acido ipocloroso.
– HClO₂ viene chiamato acido cloroso.
– HClO₃ viene chiamato acido clorico.
– HClO₄ viene chiamato acido perclorico.

In conclusione, la nomenclatura degli acidi ternari può seguire le regole IUPAC o quelle tradizionali, a seconda delle preferenze o delle esigenze di comunicazione. La corretta comprensione di entrambe le modalità di denominazione è essenziale per un adeguato studio e utilizzo degli acidi ternari.Nomenclatura degli acidi: acido iodico, acido periodico e altri composti

L’acido iodico è rappresentato dalla formula HIO3, con lo iodio che ha un numero di ossidazione di +3. Invece, l’acido periodico è rappresentato dalla formula HIO4, con lo iodio che ha un numero di ossidazione di +7.

Secondo la nomenclatura tradizionale, vengono assimilati agli acidi anche i composti binari costituiti da idrogeno e non metallo, che sono denominati idracidi. Tuttavia, nella questi composti vengono inseriti tra i composti binari. Per assegnare il nome tradizionale a un idracido, si aggiunge il suffisso –idrico alla radice del nome del non metallo. Ad esempio, HCl viene denominato acido cloridrico, che nella nomenclatura I.U.P.A.C. viene detto cloruro di idrogeno.

Quando da uno stesso ossiacido si possono formare diversi tipi di ossiacidi a seconda del diverso rapporto fra le molecole di anidride e quelle di acqua, si usano particolari prefissi (meta-, orto-, piro-, poli-). Ad esempio, l’acido metaborico (HBO2), l’acido ortoborico (H3BO3) e l’acido tetraborico (H3B4O7).

Lo stesso concetto si applica anche ad altri acidi come l’acido metafosforico, l’acido ortofosforico e l’acido pirofosforico, e all’acido metasilicico, l’acido ortosilicico, l’acido pirosilicico e l’acido trisilicico.

Nella tabella vengono messe a confronto le nomenclature I.U.P.A.C. e tradizionale di alcuni acidi, come ad esempio l’ioduro di idrogeno (HI) e l’acido iodidrico, nonché l’acido triossosolforico (IV) e l’acido solforoso.

Polimeri termoindurenti e termoplastici

Polimeri termoindurenti e termoplastici: le diverse tipologie di composti macromolecolari

I polimeri costituiscono una vasta gamma di che si distinguono principalmente in due categorie: polimeri termoindurenti e termoplastici. Le diverse proprietà meccaniche di questi materiali li rendono adatti a specifiche e cicli tecnologici.

Le caratteristiche distintive dei polimeri, come il modulo elastico, il carico di rottura, la cristallinità, la rigidità e la flessibilità, permettono di classificarli in tre categorie: materiali plastici, fibre ed elastomeri.

I materiali plastici rigidi, come il polistirene e il polimetilmetacrilato, sono esempi di polimeri amorfi, mentre i materiali plastici flessibili, come il polietilene e il , presentano discrete quantità di cristallinità. Le fibre, come il poliesametilendiammide e il polietilentereftalato, sono invece caratterizzate da elevati livelli di cristallinità. Gli elastomeri, come il poliisoprene e il policloropropene, sono polimeri amorfi che possono sviluppare cristallinità in seguito all’allungamento, aumentandone così la meccanica.

Polimeri termoindurenti

I polimeri termoindurenti sono sostanze che, in determinate condizioni di temperatura e/o in presenza di particolari sostanze, si trasformano in materiali rigidi, insolubili e infusibili. Questa trasformazione avviene attraverso di reticolazione, noto come “curing”, che si verificano fra le catene polimeriche con la formazione di legami forti.

Alcuni polimeri termoindurenti possono essere reticolati tramite calore, pressione o reazioni chimiche a temperatura ambiente. Questa trasformazione rende tali materiali difficilmente riciclabili in quanto i nuovi legami formati sono permanenti. I materiali termoindurenti possono essere lavorati con le stesse tecnologie dei materiali termoplastici, a condizione che la reticolazione avvenga successivamente alla formatura del materiale definitivo.

Usi dei polimeri termoindurenti

I polimeri termoindurenti trovano impiego in vari settori, come ad esempio nel settore degli adesivi, delle vernici e degli smalti, nonché come isolanti degli aerei. Due esempi noti di polimeri termoindurenti sono il poliuretano (PU) e le resine epossidiche.

Polimeri termoplastici

I polimeri termoplastici, al contrario, manifestano forti decrementi di viscosità al riscaldamento e conservano la capacità di scorrere a temperature elevate per un periodo prolungato. Dopo il raffreddamento, essi mantengono la forma definita e la trasformazione è reversibile, sebbene possa verificarsi una certa degradazione che limita il numero di cicli possibili.

È importante studiare la curva sforzo-deformazione per capire come i polimeri termoplastici si deformino in seguito all’applicazione di una forza esterna.

Lavorazione dei polimeri termoplastici

Nella lavorazione dei polimeri termoplastici, è fondamentale operare a basse viscosità e alte temperature, compatibilmente con la stabilità termica del materiale. Inoltre, per i polimeri parzialmente cristallini, è possibile che si verifichino condizioni metastabili durante il raffreddamento della massa al di sotto del punto di fusione delle zone cristalline, con conseguente postcristallizzazione.

Alcuni esempi noti di polimeri termoplastici sono il polietilene (PE), il polietilentereftalato (PET) e il polipropilene (PP).

In conclusione, la distinzione tra polimeri termoindurenti e termoplastici è fondamentale per comprendere le diverse proprietà e applicazioni di questi sostanziali polimeri.

Conduttività equivalente limite degli elettroliti

La conduttività equivalente a diluizione infinita dei

La conduttività equivalente a diluizione infinita di una soluzione è data dalla somma della mobilità del catione e dell’anione che non si influenzano tra di loro.

Il massimo valore assunto dalla conduttività equivalente della soluzione di un elettrolita è detta conduttività equivalente limite o conduttività equivalente a diluizione infinita e viene simboleggiata con Λo.

Il valore di Λo è caratteristico per ciascun elettrolita ed esso è raggiunto quando la sua dissociazione nella soluzione è completa, ovvero il α è pari a 1.

Elettroliti forti
Se l’elettrolita è forte, il suo grado di dissociazione è uguale a 1 già in soluzioni mediamente diluite. Pertanto, aumentando la diluizione diminuisce subito la conduttività specifica χ, ovvero il numero di ioni per cm3. Tuttavia, aumenta in egual misura Veq a causa dell’aggiunta del solvente e quindi la conducibilità equivalente Λo rimane costante. Si ricordi che la conducibilità equivalente Λo è data dal prodotto χ Veq.

Elettroliti deboli
Se invece l’elettrolita è debole, il suo grado di dissociazione è minore di 1 anche in soluzioni molto diluite. Pertanto, aggiungendo il solvente inizialmente aumenta sia χ (in quanto aumenta il numero di ioni presenti per cm3) sia Veq. Quindi si ha un aumento della conduttività equivalente della soluzione.
Continuando a diluire la soluzione, anche l’elettrolita debole si dissocia del tutto. La diminuzione di χ provocata dall’ulteriore diluizione è compensata dall’aumento di Veq. Pertanto, da questo momento in poi la conduttività equivalente Λo rimane costante.


Tale difficoltà fu superata con la “legge dell’indipendente mobilità degli ioni” dedotta da Kohlrausch. Lo scienziato notò sperimentalmente che la differenza tra i valori di Λo di soluzioni di elettroliti forti, aventi in comune lo stesso catione, ovvero lo stesso anione, era costante nello stesso solvente e alla medesima temperatura. Ciò implicava l’assenza di reciproche interazioni.

A 25°C i valori della conduttività equivalente limite ottenuta per estrapolazione grafica dei due elettroliti forti KNO3 e NaNO3 (aventi in comune lo ione nitrato) sono:
Λo KNO3 = 144.96
Λo NaNO3 = 121.55
La differenza tra tali valori corrisponde a 23.41. Consideriamo altri due elettroliti forti aventi in comune lo stesso anione, ma con gli stessi due degli elettroliti precedenti e precisamente K+ e Na+. Si deve avere per confermare la veridicità della legge dell’indipendente mobilità degli ioni che la differenza delle conduttività ioniche equivalenti a diluizione infinita deve essere la stessa. Infatti, dai risultati sperimentali si ottiene, per estrapolazione, che:
Λo KF = 128.92
Λo NaF =105.51
La cui differenza dà nuovamente lo stesso valore corrispondente a 23.41.

A diluizione infinita, quindi, le conduttività equivalenti non risentono dell’effetto di interazione degli ioni presenti in soluzione. Ciò è dovuto alla elevata distanza alla quale si trovano gli ioni che impedisce agli stessi interazioni elettrostatiche di tipo coulombiano. La legge afferma che “la conduttività equivalente a diluizione infinita della soluzione di un elettrolita è data dalla somma della mobilità del suo catione (lo+) e del suo anione (lo-)” che, in tali condizioni, non si influenzano reciprocamente.

Coefficiente di attività degli elettroliti

Il Coefficiente di attività negli : Definizione e calcolo

Il coefficiente di attività degli elettroliti è un elemento chiave nello studio delle di equilibrio degli elettroliti. Durante tale analisi, si devono considerare due fattori principali. In primo luogo, il numero di particelle presenti in soluzione risulta essere superiore a quanto previsto senza la dissociazione. Questa considerazione è cruciale nelle indagini sulle proprietà colligative delle soluzioni, come la crioscopia e la , che sono strettamente legate all’indice di vant’Hoff e al numero di particelle in soluzione. Per la concentrazione molare c di un soluto, l’attività a è correlata mediante il coefficiente di attività del soluto γ.

Il coefficiente di attività rappresenta l’effettiva concentrazione di un soluto in soluzione, considerando l’effettivo numero di particelle che partecipano attivamente a un dato fenomeno. Fra la concentrazione molare c di un soluto e la sua attività a esiste la relazione:
a = γ ∙ C

L’attività è espressa da un numero puro, quindi il coefficiente di attività ha come unità di misura l’inverso della concentrazione. Il coefficiente di attività può variare tra zero e uno, con valori più alti che si ottengono in soluzioni diluite.

Per determinare il coefficiente di attività medio di un elettrolita binario in soluzione, come NaCl o NH4Cl, gli scienziati Debye e Hückel hanno definito la legge di Debye e Hückel. Secondo tale legge, il coefficiente di attività medio di un elettrolita binario in soluzione può essere calcolato tramite l’equazione:
– log γ± = A ZcZa√μ / 1 + B d√μ

Dove γ± è il coefficiente di attività medio dell’elettrolita binario, Zc è la carica, in valore assoluto, del catione,d è il valore medio, in angstrom, del diametro degli ioni idrati, μ è la della soluzione e A e B sono costanti empiriche.

Per calcolare la forza ionica di una soluzione contenente ioni Na+, Ca2+, Cl- e SO42- con tutte le concentrazioni a 0.20 M, si utilizza l’equazione:
μ = 1/2Σ CiZi2.

Allo stesso modo, per calcolare il coefficiente di attività medio dell’acido cloridrico in una soluzione 0.10 M a 25°C, sono necessari calcoli specifici che tengono conto del diametro medio dell’elettrolita e delle costanti A e B.

Questi dati e le formule consentono di comprendere il comportamento degli elettroliti in soluzione, determinando il numero effettivo di particelle attive in un dato fenomeno e come le forze ioniche influenzano il coefficiente di attività medio.

Nomenclatura dei composti binari

Nomenclatura dei Composti Binari: Differenze tra e Tradizionale

I composti binari sono quei composti costituiti da due specie chimiche, in cui il numero di atomi di ciascun elemento può variare. Ad esempio, la molecola di acqua è un esempio di composto binario poiché contiene due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno.

La , basata sull’uso di prefissi e suffissi correlati al degli atomi, è spesso utilizzata per denominare i composti binari. Tuttavia, la nomenclatura I.U.P.A.C. mira a rendere immediatamente evidente il numero di atomi o gruppi chimici presenti in una molecola, eliminando l’ambiguità.

I composti binari possono essere suddivisi in due categorie: composti contenenti ossigeno e composti non contenenti ossigeno.

Composti Contenenti Ossigeno

Per la nomenclatura I.U.P.A.C., i composti contenenti ossigeno sono chiamati ossidi, e per la loro denominazione si utilizza l’espressione “ossido di …” seguita dal nome dell’elemento legato all’ossigeno. Ad esempio, CaO è denominato ossido di calcio. Nel caso di più atomi di ossigeno o più atomi dell’altro elemento, o di entrambi, viene indicato il numero di atomi mediante i prefissi mono, di, tri, tetra, penta, ecc. Ad esempio, Na2O è denominato monossido di disodio, Al2O3 viene denominato triossido di bialluminio.

Per la nomenclatura tradizionale dei composti binari contenenti ossigeno, si fa distinzione tra ossidi e . Gli ossidi sono costituiti da metallo e ossigeno, mentre le anidridi da non metallo e ossigeno. La denominazione tiene conto degli stati di ossidazione del metallo e del non metallo, utilizzando suffissi come “-oso” e “-ico”.

Inoltre, la nomenclatura tradizionale porta a situazioni singolari: per esempio, il carbonio forma due composti binari con l’ossigeno, CO e CO2. Il primo viene denominato ossido di carbonio, mentre il secondo anidride carbonica.

Composti Senza Ossigeno

Nomenclatura dei Composti Binari

Per denominare i composti binari, è necessario prendere in considerazione la formula e seguire alcune regole. In particolare, si aggiunge il suffisso –uro alla radice del nome dell’elemento, presente a destra nella formula. Ad esempio, NaF sarà denominato fluoruro di sodio. Nel caso vi siano più atomi di uno dei due elementi, o di entrambi, viene indicato il loro numero mediante i prefissi: di-, tri- ecc. Ad esempio, Fe2S3 sarà denominato trisolfuro di diferro. Le formule sono scritte mettendo per primo l’elemento meno elettronegativo. Per scrivere la formula di un composto binario a partire dal suo nome, si scrive a destra l’elemento con desinenza –uro e a sinistra l’altro elemento; quindi si inseriscono gli eventuali indici.

Nomenclatura Tradizionale

I composti tradizionali che non contengono ossigeno presentano una molteplicità di denominazioni. Quando vi sono più composti formati dalla stessa coppia di elementi si ricorre , anche in questo caso, ai suffissi –oso e –ico. Si ritiene utile elencare in tabella alcuni composti binari non contenenti ossigeno affiancando, alla nomenclatura I.U.P.A.C. quella tradizionale. Ecco alcuni :
– CaC2: Dicarburo di calcio (Carburo di calcio)
– AlF3: Trifluoruro di alluminio (Fluoruro di alluminio)
– PH3: Triidruro di fosforo (Fosfina)
– SbH3: Triidruro di antimonio (Stibina)
– H2S: Solfuro di diidrogeno (Acido solfidrico)

È importante conoscere questi dettagli per riconoscere e denominare correttamente i composti binari.

Cromatografia su strato sottile

Cromatografia su strato sottile: Principi e

La cromatografia su strato sottile è una tecnica di analisi microscopica che combina i vantaggi della cromatografia su carta e su colonna. Si tratta di una separazione rapida e ad alta risoluzione di sostanze, ed è particolarmente utile per le indagini preliminari e di routine.

Preparazione dello strato adsorbente

La preparazione dello strato adsorbente è cruciale e richiede uniformità e spessore costante. Il materiale adsorbente, generalmente una pasta, viene distribuito su una lastra di vetro utilizzando uno stratificatore. Dopo l’essiccazione in stufa, le lastre vengono conservate in un essiccatore per evitare l’assorbimento di acqua.

Eluizione e Eluente

Dopo l’applicazione del campione, le lastre vengono poste in una vasca contenente l’eluente, che si muove per capillarità lungo lo strato in senso ascendente. La scelta dell’eluente è essenziale per il successo dell’analisi. Solventi più polari sono utilizzati per sostanze con maggiore polarità.

Ruolo degli Adsorbenti

Gli adsorbenti più comuni per questa tecnica sono il , l’allumina, il kieselguhr e la polverizzata, ognuno con caratteristiche specifiche. Aggiungere piccole quantità di additivi può migliorare la compattezza dello strato.

Parametri di Prestazione

Le prestazioni della cromatografia su strato sottile possono essere valutate in termini di selettività, efficienza, risoluzione, capacità e riproducibilità. Ognuno di questi parametri è cruciale per ottenere risultati affidabili e riproducibili.

Concludendo, la cromatografia su strato sottile è una tecnica analitica potente e versatile, che trova ampie applicazioni in vari settori scientifici e industriali. La sua capacità di separazione rapida e accurata la rende uno strumento indispensabile per analisi di laboratorio avanzate.

Antinfettivi topici o locali

Antinfettivi Topici: Caratteristiche e Utilizzo

Gli antinfettivi topici o locali sono utilizzati esternamente e comprendono una vasta gamma di composti con azione batteriostatica o battericida a seconda delle loro caratteristiche e concentrazioni. Questi antinfettivi comprendono disinfettanti, antisettici, antimicrobici antifungini e virulicidi per l’uso esterno.

Si distinguono in due gruppi: quelli di natura inorganica e quelli di natura organica. Gli antinfettivi topici inorganici comprendono disinfettanti come la , il cloruro di mercurio (II), l’ossido di mercurio (II) giallo, il clorammidruro di mercurio e altri agenti come l’ e composti a base di argento, zinco e selenio. Tra questi, l’amuchina e il nitrato di argento sono utilizzati per la disinfestazione e nel trattamento oftalmico rispettivamente.

Per quanto riguarda gli antinfettivi topici organici, includono alcoli, aldeidi, acidi, ossiacidi ed esteri della serie alifatica e aromatica come l’alcool etilico e la formaldeide. Anche i fenoli e i loro derivati hanno un ruolo importante come disinfettanti.

Inoltre, alcuni composti alogenati, quali le e alcune ammidi derivati dall’acido salicilico, sono impiegati come agenti battericidi e fungicidi e spesso aggiunti a creme e saponi. Un altro gruppo di antinfettivi organici è rappresentato dai , in particolare i tensioattivi cationici, utilizzati per il trattamento delle infezioni fungine della pelle e del cavo orofaringeo, nonché per mantenere sterilizzati i ferri chirurgici e disinfettare la biancheria dei malati.

Gli antinfettivi topici hanno un ruolo fondamentale nella prevenzione delle infezioni e nella sterilizzazione degli strumenti medici, garantendo un ambiente sicuro in ambito sanitario e protettivo per la pelle.

Detergenti: meccanismo di azione

Il meccanismo di azione dei detergenti e l’interazione con gli agenti sporchi

I detergenti sono prodotti destinati a rimuovere lo sporco da varie superfici. Questo processo coinvolge i sintetici e l’acqua come elemento chiave per esaltare l’azione detergente. Il fenomeno della detergenza è influenzato da diversi fattori, in particolare la rimozione dello sporco, il distacco dello sporco dal substrato e la sospensione dello sporco nel bagno detergente.

Rimozione dello sporco

Il processo di rimozione dello sporco inizia con la bagnatura del substrato, seguita dall’azione dei tensioattivi che abbassano la tensione superficiale dell’acqua. Questo permette ai tensioattivi di legarsi sia all’acqua che alla fase grassa dello sporco, facilitandone la solubilizzazione. Il risultato è la formazione di in cui le molecole del sapone racchiudono le particelle di sporco nelle micelle, consentendo la completa rimozione dello sporco attraverso l’azione meccanica.

Distacco dello sporco dal substrato

L’interazione sporco-fibra è influenzata dall’intrappolamento dello sporco nelle irregolarità della fibra e dalle forze di van der Waals e coulombiane. Il distacco avviene quando le forze di adesione tra substrato e sporco sono ridotte al di sotto di determinati valori critici grazie all’azione del bagno detergente. L’azione delle sostanze complementari deriva dalla loro alcalinità e dalla capacità di idrolizzare i grassi e oli che compongono lo sporco-liquido.

Sospensione dello sporco nel bagno detergente

Una volta allontanato dal substrato, lo sporco si trova sospeso nel bagno detergente come dispersione stabile. Le particelle di dimensioni colloidali creano una dispersione stabilita dai componenti della formulazione detergente. Le barriere che impediscono la flocculazione sono di natura steriche ed elettriche.

Barriere steriche ed elettriche

Le barriere steriche impediscono la coalescenza delle particelle, mentre le barriere elettriche sono legate alle cariche assunte dai colloidi in soluzione. Queste influenzano il , che rappresenta uno dei fattori di stabilità della dispersione colloidale.

In conclusione, l’azione dei tensioattivi si basa sulla loro capacità di adsorbirsi all’interfaccia sulle superfici delle particelle, garantendo la stabilizzazione del sistema colloidale.

Proprietà colligative. Esercizi svolti e commentati

Proprietà colligative della soluzione: esercizi risolti e commentati

Le soluzioni diluite mostrano proprietà che dipendono solo dal numero di particelle di soluto nella soluzione, dette proprietà colligative. Alcune di queste proprietà sono l’, l’, la e l’.

Esercizio 1: Calcolo del peso molecolare dell’antracene


Per calcolare il peso molecolare dell’antracene, iniziamo calcolando la costante Kb di CS2. Utilizziamo i dati forniti e la formula ΔT = m ∙Kb. Avendo ottenuto Kb, calcoliamo il numero di moli di antracene e infine il peso molecolare.

Esercizio 2: Determinazione del peso molecolare della sostanza A


Calcoliamo la molarità della soluzione nota la densità e la pressione osmotica. Successivamente calcoliamo il numero di moli della sostanza A e, infine, il peso molecolare.

Esercizio 3: Calcolo di Kf e Kb del benzene


Calcoliamo la molalità della soluzione nota la percentuale di peso della naftalina, utilizzando le formule per ΔT e le proprietà colligative.

Esercizio 4: Calcolo del peso molecolare e della formula del composto


Determiniamo la formula minima dell’idrocarburo e quindi il peso molecolare del composto utilizzando le proprietà colligative.

Esercizio 5: Calcolo della quantità di liquidi antigelo


Calcoliamo la quantità di liquidi antigelo necessari per evitare il congelamento dell’acqua, utilizzando la formula ΔT = m ∙ Kf.

Esercizio 6: Determinazione del PM della sostanza aggiunta e della costante crioscopica


Utilizzando le informazioni fornite, calcoliamo il peso molecolare della sostanza aggiunta e la costante crioscopica del benzene, utilizzando la legge di Raoult e le proprietà colligative.

Conclusione


Le proprietà colligative delle soluzioni forniscono importanti informazioni sulla composizione e sul comportamento dei soluti, e la pratica attraverso esercizi come questi consente di comprendere meglio tali concetti.

Saponificazione dei grassi

La reazione di saponificazione dei grassi rappresenta un esempio di idrolisi degli esteri organici, in particolare degli esteri glicerici degli superiori. Questo processo si basa sulla scomposizione degli esteri in presenza di acqua e ha importanti implicazioni pratiche in diversi settori industriali.

La saponificazione avviene attraverso una reazione inversa all’: R-COOR’ + H2O → R-COOH + R’-OH. La ricerca ha dimostrato che la cinetica della reazione segue un modello di secondo ordine.

Il meccanismo della saponificazione è stato oggetto di approfonditi studi. Inizialmente, si pensava che la rottura del legame acilico C=O e la rottura del legame alchilico O-C potessero coinvolgere due meccanismi diversi. Tuttavia, studi successivi hanno dimostrato che l’attacco iniziale dello ione OH- avviene sul carbonio carbonilico, confermando il meccanismo della scissione acilica.

Ulteriori esperimenti hanno evidenziato che la reazione non procede per sostituzione diretta, ma piuttosto attraverso una sequenza di due successive di addizione e eliminazione. L’osservazione dello scambio isotopico di ossigeno ha contribuito a chiarire il meccanismo di addizione-eliminazione.

In generale, la comprensione approfondita della saponificazione dei grassi è fondamentale per numerosi settori tecnologici e industriali, tra cui la produzione di saponi, detergenti e altri prodotti di consumo.

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